Dobbiamo immaginarlo rivolto verso uno di quei tramonti messicani fatti di polvere e sudore, a ridosso di un cielo violento e primitivo, con lo sguardo duro incastrato tra due occhi profondi, esattamente come il padre. Ma è dalla madre, una indiana Kickapoo, che Fernandez eredita invece quella faccia da indio che gli varrà il nome e, in seguito, la leggenda.
L’ascesa del mestizio ha origine in quel calderone di violenza e rivoluzione che è il Messico di inizio novecento. Fernandez perde il padre, eppure guadagna il ricordo di un’infanzia invidiabile, capace, secondo lui, di regalargli tutto quello di cui un bambino ha bisogno: “una pistola, un cavallo e un campo di battaglia.”
Pancho Villa viene assassinato e il giovane Emilio partecipa alla ribellione del 1924, ma dalla parte sconfitta, quella di Adolfo de la Huerta: finisce dritto in carcere a scontare una condanna ventennale. Con un’evasione che ha del rocambolesco, El Indio fugge in California, dove sbarca il lunario muovendo i primi passi ad Hollywood.
Nel 1934 Fernandez approfitta dell’amnistia per tornare in patria, in cui le tracce della guerra civile hanno lasciato un paese pronto a rinascere. Fernandez spinge al massimo le possibilità offerte dalla sua particolare fisionomia e comincia a costruirsi un repertorio attoriale di banditi rivoluzionari e indios. Il suo esordio alla regia è del 1941 con La isla de la pasión. Primo tassello della costruzione di un cinema messicano nazionale, Fernandez si guadagna la vittoria a Cannes con Maria Candelaira nel 1943, in cui offre all’avvenente splendore di Dolores del Rio, il ruolo di protagonista.
Fernandez continua la sua produzione fino agli anni ‘50, quando l’ombra lenta del declino comincia a spezzare il respiro della sua attività professionale. Recita in alcuni film a cui può ancora prestare la sua faccia da villain, come ne Il Mucchio Selvaggio di Peckinpah (1969). Ma persino la fine della sua esistenza ha del romanzesco: lo ritroviamo alla fine degli anni ‘70, chiuso nella sua enorme villa messicana, dopo essere stato accusato dell’omicidio di un contadino. Entra ed esce di prigione, sempre più solo e deluso. Infine muore il 6 agosto 1986, dopo essersi fratturato il femore per una caduta e aver ricevuto in ospedale una trasfusione di sangue malarico infetto.
Guardando al Messico ritratto da Ėjzenštejn, durante la sua vita da cineasta, Fernandez e il suo D.O.P. Gabriel Figueroa, sono riusciti a consolidare l’identità del cinema messicano post-rivoluzionario contribuendo alla definizione della sua epoca d’oro. Come ebbe infatti a dire ad un critico che osò contraddirlo, in uno di quegli episodi che sanno di leggenda, puntandogli contro una pistola: “Il cinema messicano sono io!”
Oggi che proprio il cinema messicano ha reclamato di nuovo le attenzioni degli spettatori di tutto il mondo, racimolando riconoscimenti vari e premi Oscar, viene da pensare all’aneddoto che vede proprio Fernandez posare per il modello della nota statuetta.
Fu Cedric Gibbons, membro fondatore della stessa Academy, che disegnò il premio ritraendo Emilio Fernandez (il quale sembra abbia posato nudo) e immortalandolo in uno dei feticci più cari del sistema hollywoodiano.
Curioso come uno dei simboli dello strapotere culturale d’America, debba le sue fattezze ad un regista immigrato, che in America ha scoperto l’industria, poi tornato in patria per contribuire alla crescita artistica del suo paese. Quella di Fernandez è una parabola che ha dell’incredibile, che sembra esattamente uno di quei film avventurosi tanto amati da Hollywood, una vita esagerata i cui confini si confondono spesso e volentieri con la leggenda.
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