
I
Marzia sedeva sul divano con l’aria di essere l’unica persona nella stanza.
– Ha chiamato mia sorella – mugugnò con il tono basso e monocorde di qualcuno che parla tra sè e sè
– Dice di passare a trovare papà prima di ripartire.
Donato Cosmi era ancora sulla soglia, con in mano la borsa del mare. Ricevette la notizia come si riceve un catalogo di elettrodomestici nella posta, la sua faccia assunse in una frazione di secondo le sembianze di quella del ragazzo scelto per ultimo alla partitella dell’oratorio. Lei gli concesse allora un’occhiata: infilato in un paio di sandali e un costume a pantalocino marrone in evidenti rapporti con il ridicolo, Donato stava in equilibrio precario tra le fessure sbiancate delle mattonelle azzurre. Tutto in lui dava pena allo sguardo.
Marzia fece la grazia di non commentare, rispedendo indietro una matassa di commenti acidi che a sbrogliarli avrebbe impiegato tutta la sera. Solo l’idea della fatica di articolare pensieri e parole è spesso la cosa che ci salva dall’essere ancora più orribili. Incrociò allora le gambe e accese la televisione della loro casa vacanze.
L’uomo andò in cucina, uscendo dalla sala ed entrando in un lucidissimo sconforto. Fece tre sospiri di fronte al frigo aperto. Sembrava che la fievole luce a 10 watt del frigo alleviasse in qualche modo il suo bruciore, la sua nausea, il suo distacco. Poco dopo richiuse lo sportello senza prendere niente.
Tornò in sala e pensò di coccolare un po’ la sua fidanzata, con la segreta convinzione che a volte fare del bene a qualcuno è l’unico modo per farlo a sé stessi. Le posò la mano delicata dietro il collo nodoso. Accennò un massaggio, poi la cinse con il braccio e la spinse a sé. Lei fece una smorfia e si divincolò senza troppe cure.
– Fa caldo – disse, chiudendo in tal modo la ginnastica degli affetti.
Quella stessa mattina, la ragazza aveva tossito un paio di scuse per potersi defilare dalla spiaggia e vedere Carlo e Valentina, certi amici d’infanzia che aveva proprio cuore di rivedere. La scelta delle vacanze era sempre stata prerogativa di Marzia: almeno una volta all’anno trascinava Donato in Maremma, nel paese d’infanzia mai dimenticato. Proposito pregevole, secondo lei, quello di rinsaldare ogni tanto dei legami stiracchiati per giocare al gioco del “Cosa fai adesso nella vita?”. A Donato era bastata una scappata pasquale di qualche anno prima per conoscerli e, nello stesso incontro, odiarli dal profondo. Così non stette troppo a recriminare per quella defezione, considerando anche la necessaria visita al padre, ennesimo tassello nel mosaico di irritazioni che Donato andava racimolando. Concedendosi il lusso delle prime ore del giorno, quando la spiaggia appare un privilegio per pochi, aveva creduto di trovare un po’ di quiete nell’infilare i piedi nella sabbia, guardarsi le caviglie bianche e ossute come obelischi, ricoperte di pelacci neri. Sentiva allora il fresco dei granelli umidi, non ancora resi incandescenti dal sole di mezzogiorno. Gettò uno sguardo partecipe alla spiaggia vuota, poi alzó la testa mandando indietro il collo. Si arrese all’asciugamano e si addormentò nel giro di pochi secondi. Sognò un’isola tropicale, grande abbastanza per ospitare una sola palma. C’era solo lui, naufrago e perduto. E non provò alcun desiderio di salvezza. Al risveglio, la visione gli era rimasta impressa nelle palpebre, come quegli sfarfallii di luce che investono gli occhi quando vengono stropicciati.
La spiaggia era piena di bagnanti. Strizzò allora gli occhi mettendo a fuoco l’enorme folla che lo aveva circondato. L’isola dei sogni lasciò il passo a un carnevale di ombrelloni e signore strette nei loro costumi interi da cui una serie di gambe spuntavano come zampe, una rete di vene varicose esposte al sole di fine stagione. I mariti riposavano le loro pance spropositate, su cui una grigia peluria si affacciava timida, con la stessa tensione dell’erba di montagna sulla roccia, sedendo sui seggiolini di plastica bianca. Il riposo, più tentato che riuscito, veniva infatti minato dai ragazzini che si tiravano la sabbia, gridavano ai quattro venti e si rincorrevano alzando mulinelli che finivano addosso al vicino d’ombrellone stizzito.
Donato ribolliva. Si alzò lentamente, si scrollò la sabbia dal costume marrone e poi si avviò verso l’uscita del mare, alternando il peso del corpo sulle ciabatte più grandi di un numero.
Uno scarabeo stercorario uscì da una piccola duna e rimase qualche secondo immobile, prima di ricacciarsi tra i granelli e sotterrarsi nella sabbia come un antico segreto d’Egitto.
II
Quella di non stare a casa del padre era stata, forse, l’unica vittoria di Donato. Avevano affittato allora una casa vacanza, secondo piano affaccio sulla laguna di ponente. Entrati nell’appartamento, il colpo d’occhio aveva cullato la vista, l’aveva affidata delicatamente ad una calma ben congegnata, merito dell’equilibrio di colori pastello dell’arredamento, della parete azzurra della sala, della sapiente mano dell’interior design, il nipote del proprietario, triennale allo IED e stage da ArredareDomani.
Ogni angolo era protetto da piante da interno tropicali. Sul parquet di finto legno, una sedia gialla. Un’accozzaglia di roba coloniale, di iuta grezza, roba da far impallidire il latifondista di una piantagione delle Antille.
L’enorme bovindo garantiva una luce piena che sembrava scortare fin dentro casa particelle salmastre prese direttamente dalla laguna lì di fronte, per poi sparpagliarle in giro sul tappeto tibetano, sul cavallino di legno e i mobili fintamente rovinati. Alla parete, un collage in una cornice di legno grezzo spessa e bianca, ricostruiva l’immagine di un sambuco su un mare in tempesta.
Poi c’era il letto. Appena arrivati, Marzia ci aveva gettato sopra le valigie, disarcionando le fantasie che galoppavano nella testa di Donato. Quanto è che non facevano l’amore? Ci voleva cuore a chiamare così quell’ingorgo di corpi in cui si erano cimentati l’ultima volta, una cosa ridicola che aveva molto più in comune con il pilates che con il sesso.
Dopo essere tornato dal mare, Donato mise in atto una recita spicciola che andava in scena ogni sera. Faceva finta di non ricordarsi dove avesse messo le sigarette – sempre nella tasca interna della giacca, da quindici anni ormai – serpeggiava un poco per la sala, poi con un eureka pallido e smorto, si gettava sulla giacca, prendeva il pacchetto e usciva. Non sapeva neanche più spiegarsi per quale pubblico si esibisse.
Il paese si strotolava, livido e abbandonato come una lingua bovina, su quello specchio d’acqua chiusa. Donato sbuffava, si mordeva il labbro. Si sentiva più leggero a ogni nuvoletta di fumo che svaporava nell’aria settembrina. Quella solitudine, infatti, era la sua vera vacanza.
Passò rasente un muro. Diede una lettura ai nomi degli annunci mortuari. Una vecchia abitudine. Cercava di fissare nella memoria i nomi di quelli più vecchi, che spesso erano nomi strani, caduti in disuso quando i proprietari erano ancora in vita. Luxardo, Aristide, Ildo. Nomi di una provincia che fu…
Più in là, i manifesti cambiavano di segno e una faccia si mostrava fiera.
Dietro a una montatura colorata, l’enorme faccia di Bebo Dalloro, emerito cantante, rideva con il sorriso sornione che lo ha contraddistinto per tutta la sua quarantennale carriera, non sempre egregia, non sempre al massimo. Il suo concerto in piazza Eroe dei due Mondi era descritto come l’evento di fine estate. Marzia aveva già detto di volerci andare: cadeva la loro ultima sera in paese. “Finché sei con me” gliela cantava sempre il padre da bambina e per lei significava l’ennesimo appiglio ad un ricordo lontano e irrinunciabile.
Donato tornò a casa, si fermò nel giardinetto interno del palazzo. Approfittò di un vecchio dondolo che il proprietario dello stabile aveva preso chissà dove e lasciato lì. Ci si adagiò lentamente, guardando la luna quasi piena brillare di rimando nella lastra oscura del cielo.
E come fosse sdraiato sui sedili posteriori della macchina dei suoi, in quei viaggi di ritorno a casa della sua lontana infanzia, Donato chiuse gli occhi e si sentì protetto. Ci mise un niente ad addormentarsi. La mattina dopo, si inaugurò l’inspiegabile.
III
Toccandosi il polpaccio, Donato fece la prima di una serie di temibili scoperte. La carne sembrava essere stata morsa da qualcosa, forse un animale sgattaiolato in giardino. Si guardò i polpastrelli per vedere se ci fosse del sangue. Non c’era.
Uscito dalla doccia, si massaggiò la faccia di fronte allo specchio, finché non si accorse che la sua pelle cominciava a spaccarsi. Era un poco arrossato, ma la cosa sconcertante era la lunga serie di screpolature che lo attraversavano per tutta la schiena. Come delle lame di pelle secca, si slanciavano lungo tutta la spalla, andandosi a tuffare laddove terminava la visione concessa dalle articolazioni e dal collo, dove l’occhio non si spingeva oltre. L’uomo toccò allora con la mano. Per primo tentò un approccio con l’unghia dell’indice, con certi timidi tentativi che divennero sempre più convinti. Prese a strapparsi piccolissimi lembi di pelle morta. Si portò sotto gli occhi uno di quei pezzetti di sé, alla luce della specchiera. Erano bianchi e setosi, sembravano quasi scaglie di un rettile.
C’erano tutte le evidenze di un’insolazione. Ma quelle del morso lo spaventavano forse di più. Cominciava a sentire uno stordimento che gli affaticava i pensieri e il respiro. Era il principio di una febbre. Cercò su Google alcuni rimedi. Ciò che trovò lo mise più che altro in allarme. Un fiume di sintomi e di situazioni generiche sfociava quasi sempre nel mare di mortalità che è l’autodiagnosi su internet. Incoronato da una fila di perle di sudore, guardò l’indirizzo di un ambulatorio, chiuse il portatile e uscì di casa. Marzia dormiva ancora.
Terminata la visita, il dottore era sprofondato dietro la scrivania di vetro. I palmi appoggiati alla lastra, fissava un punto indistinto tra gli stipiti della finestra. Sembrava che in quell’incrocio si manifestasse il più incredibile dei fenomeni osservabili dagli uomini. Un qualcosa capace di gareggiare con aurore boreali e fate morgane. Il dottore schioccò la lingua. Spalancando gli occhi sull’uomo, cercò di spiegare la situazione, limitando il tono fastidioso che a quell’ora del giorno lo afferrava per la gola.
– In effetti è un po’ rosso. Lei è sicuro che è stato morso?
Donato tergiversò. In effetti non lo era, e la ferita sul polpaccio era come sparita. Non poteva essere che fosse stata una specie di allucinazione, un flash della mente dovuto alla stanchezza, alla noia e a quello stato di febbre che cominciava ad aggrapparsi ai brividi dietro il collo? Si sentì un po’ un cretino.
Il dottore si accigliò, poi premendo il dito sul polpaccio di Donato chiese: E secondo lei è stato proprio un cane, eh?
– Non saprei.
– Se l’ha morsa un cane dovrebbe ricordarselo.
– Devo fare il vaccino antirabbia?
– Se pensa di avere la rabbia.
– Non credo.
– Il vaccino è a Pretagliano. Dovremmo farlo venire qua con un’ambulanza… è proprio proprio sicuro che l’ha morsa un cane?
Il dottore continuava a puntare quella domanda alla gola di Donato, il quale, dopo un poco, cominciò a desiderare solamente di andarsene via da quello studio, da quelle quattro pareti soffocate dai poster medici e dalle lauree.
– Credo… credo proprio di no
– Crede…
– No. – disse secco Donato – Non mi ha morso nessun cane.
– Secondo me questa roba è psicosomatica. – fece il dottore dopo qualche secondo di silenzio.
Donato lo guardò di traverso.
– Lei psicosomatizza.
– Io?
– Sicuro.
-Ed è grave?
– È tutta una questione della testa. Succede… Lei non ha niente. Apparte il rossore, si capisce. E, come può notare anche lei, non ci sono segni evidenti di morsi. Sì, secondo me lei è solo un po’ stressato. Lo sa, no? La mente…
Donato rispose come per un automatismo: … è più forte del corpo.
– Proprio non c’è gara.
Donato ricevette la notizia con la stessa sorpresa con cui si riceve del fuoco amico in trincea. Era preparato alle indisposizioni del corpo, abbonato come era a tutta una serie di malanni stagionali, puntuali come una tassa, ma quando è la mente a dare problemi è come se azzerassero la gravità tutto d’un colpo e il nostro contratto implicito con il suolo.
Il dottore consigliò una pomata lenitiva per il rossore, per puro scrupolo, poi licenziò l’uomo con dei sorrisi e con dei gesti da prestigiatore, passandogli tra le dita un foglietto indecifrabile.
– Prenda questo, si goda la vacanza e stia lontano dai cani – disse prima di rituffarsi dietro la scrivania ad osservare la finestra.
Si era già involato verso il match di tennis fissato alle prime ore del pomeriggio con l’avvocato Rabaglini. A distrarlo il ricordo di due partite vinte su tre e una cocente ma vigorosa sensazione di rivalsa.
IV
La luce sulla laguna di levante tremolava nell’aria settembrina con quella tipica increspatura all’orizzonte che sembra quasi una timidezza. Gli strati arancioni si confondevano con l’acqua e si disperdevano poco lontano, sopra il monte appariva in lontananza con delle nuvole a fare da cappello. Benché l’estate fosse ancora nell’aria, già qualcosa si preparava a superarla.
Donato si perse in quello scenario, nonostante la schiena gli facesse un dolore impossibile e la fronte gli scottasse. Provava una specie di frustrazione, un qualcosa che forse aveva provato da sempre ma solo con quella febbre addosso, con quella pesantezza delle palpebre, riusciva davvero ad avvertire. Sentiva come se qualcosa grattasse dall’interno, una continua pressione della pelle.
Ogni tanto passavano dei signori a passeggio coi cani, i quali, nel momento in cui percepivano la presenza di Donato, prendevano ad abbaiare come forsennati. Donato non muoveva un muscolo, e guardava le loro bocche ringhiargli addosso. Contava le loro zanne snudate e si perdeva dentro i loro occhietti piccoli e vuoti.
Cercò riposo ai suoi di occhi lasciando galleggiare lo sguardo sulla superficie appena smossa dell’acqua. Erano sparite le rane dell’infanzia, quelle che abitano tutti gli stagni della memoria. Forse si erano stancate delle quotidiane sassate dei ragazzini, di essere disturbate nei loro canti d’amore e nei loro sospiri sulle foglie galleggianti. Forse non c’erano mai state. Si chiese se le rane abitassero l’ecosistema lagunare, mentre si passava i polpastrelli sulla piaga, con la mano infilata fino al polso nel colletto della camicia, sfiorando la pelle che continuava a staccarsi dalla schiena. Un lieve soffio di vento disperse per aria alcuni pezzetti di pelle rimasti sulle dita, i quali volarono via come petali di rosa. Sapeva di dover peggiorare prima di poter stare meglio.
Guardò la linea dell’orizzonte fremere. Si accorse solo dopo qualche minuto di un tizio che, come lui, allungava il naso verso quelle acque di seconda mano. Avrà avuto una settantina d’anni, con uno sguardo topesco garantito da due occhi a fessura e nascosti da un paio di occhiali colorati, appesi su un naso lungo e piatto sulla punta. Il tizio sembrava non ricambiare le attenzioni e se ne stava fermo a fissare il riflesso delle cose. Era un tipo tozzo a cui l’età aveva di sicuro tolto più di quello che aveva dato. La camicia a righe si infilava sicura nei pantaloni. Solo allora Donato riconobbe Bebo Dalloro in tutto il suo degradante splendore. Per qualche strano meccanismo di socialità, gli fece un cenno. Bebo Dalloro lo guardò da una distanza infinita, come un esopianeta ancora sconosciuto. Poi gli sorrise.
V
– Perchè non ti sforzi un pochino?
La domanda era caduta liscia liscia a terra. Il silenzio di Donato era scivoloso e respingente come un muro di gomma. Sapeva che ogni espressione che avrebbe indossato gli sarebbe andata o troppo stretta o troppo larga. Marzia fece un respiro che ebbe cuore di evidenziare il più possibile, poi entrarono insieme nella casa paterna, dove il vecchio viveva con la secondogenita, Dina, avendo ella ormai rinunciato a qualunque desiderio di accasarsi altrove.
Dina non nascose gli indizi del fastidio provato nell’essere sorpresa con le mani nella pastella. Le lampeggiava in volto come una spia luminosa. Interrompere così un’attività che lei riteneva certamente più importante che dover accogliere la sorella e quell’incapace del compagno, la innervosì oltremodo. Tra le sorelle ormai c’era soltanto un legame sfilacciato, una relazione tiepida che non si riscaldava dal vincolo di sangue. Di conseguenza l’uomo poteva ricevere una versione ancora più raffreddata di quel rapporto, considerato come un prolungamento inutile di un qualcosa che già si sopporta a malapena. La sorella offrì il gomito all’uomo il quale rispose dandole il proprio, poi tornò ai fornelli.
– È di là. Vai, vai… – disse, prima di riconsegnare la più cristallina delle attenzioni alla pastella.
Il padre salutò la figlia con affetto dovuto, poi si rivolse all’uomo, con cui era in debito persino di diversi “buongiorno e buonasera”. Il padre disse qualcosa a bassa voce, Marzia rise. Donato mostrò i denti sperando che il vecchio riuscisse a scambiare quello sforzo muscolare per qualcosa di avvicinabile a un sorriso.
– Roma è un immondezzaio… – decretò il padre, facendosi aria con la mano -…ma almeno è vicina.
– Almeno abbiamo l’aria condizionata – disse la figlia.
Il vecchio si passò le dita tra le folte sopracciglie grigio topo. Il ventilatore ronzava nella stanza. Donato si mise a sedere, scrutato in ogni suo movimento dal padre di Marzia. La distanza tra i due sembrava come urlata dai rispettivi colori: uno era rosso, confinava con i territori della farsa, si divincolava cercando di non appoggiare il corpo per più di qualche secondo sul legno della sedia, l’altro d’un bianco artico, immobile come un titano inchiodato alla poltrona di pelle. Il vecchio si voltò verso il ventilatore e inalò l’aria smossa della stanza. Un fresco leggero passò attraverso gli innumerevoli peli del naso, e come braccia di annegati cercarono di afferrarlo.
Presero a condividere il silenzio che si manifesta in certe ore del pomeriggio nelle case dei vecchi. Ognuno lo riempì dentro di sé di un disagio specifico. L’uomo non riusciva a capire, guardando il vecchio, come decifrare quella matassa incomunicabile che aveva di fronte. Poi guardò la sua ragazza. Osservò i suoi occhi che gli fuggivano. Sapeva del bene che provava per lei, eppure il loro amore era un cane spintonato al collo da due catene, una fatta di un bene segreto e mai rivelato e l’altra di incomprensione e delusioni gelate alla luce del sole. Donato sentì un’intensa pressione provenirgli da dentro, come un qualcosa che premeva sotto lo strato di pelle, stavolta all’altezza del petto. Qualcosa che sembrava ringhiare. Si passò la lingua sui denti e gli parve che i canini fossero più lunghi del solito.
Andò in bagno a bagnarsi la faccia. Si ispezionò un poco. La piaga sulla schiena si era allargata a dismisura. L’orrore rincarò la dose: sembrava adesso un ghigno beffardo, una bocca orrenda che se la rideva alle sue spalle. Gli parve di vedere qualcosa dentro quella spaccatura di carne. Come un grumo di peli e la pelle di un animale flaccido e morente.
La coppia salutò il padre, promise di tornare appena possibile almeno per una scappata veloce, poi andò in cucina e ripropose lo stesso canovaccio alla sorella. Tornarono in casa.
Allo specchio del bagno, una luce di lato segava a metà l’aria. Le valigie mezze fatte sul letto, la ragazza che riordinava il beauty case, la televisione accesa ma muta. Il tutto sembrava galleggiare sullo strato di allucinazione garantito dalla febbre.
Donato prese le sigarette.
– Se stai male resta a casa – gli gridò Marzia dalla sala. – Stasera abbiamo l’aperitivo con Carlo e Valentina.
Ma lui era già sulla porta, forse sentì il monito della ragazza, ma non lo diede a vedere.
VI
Lo guardò con attenzione, come se cercasse un segno esteriore nelle pieghe del viso, nel naso piatto, in quei vestiti fuori tempo. Dei segni evidenti che qualunque cosa quell’uomo bizzarro stesse dicendo, corrispondesse al vero.
– È febbre lunare.
Era apparso quasi senza avvisi. Adesso sedeva accanto a lui, sulla panchina di marmo affacciata sul lungolaguna.
– Sono veramente dispiaciuto, capisco che non sono propriamente belle notizie da dare… però è giusto che tu sappia. È giusto che sia io a dirtelo. – disse Bebo Dalloro mentre si lisciava il doppiomento – Domani sera è ancora luna piena… cioè, perlomeno per il nostro calendario biologico. Di solito non si dovrebbe mordere in concomitanza con la trasformazione, di questo soprattutto sono qui a scusarmi.
Donato non provò nemmeno a scansare l’idea che tutte quelle chiacchiere fossero assurde. Sarà stata la fertile comunione tra febbre e stanchezza, ma c’era qualcosa nella voce di Bebo Dalloro che lo rassicurava e lo convinceva più di qualunque prova provata.
– Se non mordi qualcuno domani notte, quando sei trasformato, puoi scordarti di tornare umano.
Donato cercò di arginare quei discorsi: – Non è un’insolazione? Non è una roba psicosomatica?
Bebo lo guardò come se gli avesse pestato la coda.
– E se non mordessi nessuno? – fece Donato cercando di stabilire un formulario di quella situazione.
– Allora sono affari tuoi, bimbo mio.
– Che succede?
– Succede che te ne resti lupo.
– Per sempre?
– Beh, finché campi.
– E devo mordere un uomo?
– Uomo, donna, cane, gatto… ti sconsiglio i bambini, ma solo per una questione etica, sai…
Donato lo guardò con due occhi macroscopici.
– Non le ho mica fatte io le regole. Ti assicuro che non ho trovato nessun gatto nei paraggi. C’eri solo tu, addormentato su un dondolino. Mi devi scusare, ma se io non mordevo a te, io che facevo? Restavo lupo? E non me lo posso mica permettere, sai. – Bebo alzò le spalle – Io c’ho un pubblico.
Donato rimase a guardare un grumo d’alghe che oscillavano contro la sponda del marciapiede del lungolaguna, mentre Bebo continuava a blaterare qualcosa riguardo una qualche specie di responsabilità. Due ragazzi si baciavano sulla panchina di marmo accanto alla loro e una luna appena sbeccata si affacciava nel cielo del pomeriggio. Donato sentì come una voce parlargli direttamente dalle viscere: era la voce della bestia e ogni fitta di dolore che lo attanagliava era una conferma più esplicita di qualunque parola di Bebo Dalloro. Non poteva non credergli.
VII
Piazza Eroe dei due Mondi era affollata di locali e turisti. La ragazza lo aspettava ai tavolini del bar. Mescolava il ghiaccio del suo Bellini, con una disinvoltura che sembrava studiata. Carlo e Valentina occupavano le rispettive sedie. Donato cercò di rispettare le etichette.
– Ciao Carlo, come stai? Ciao Valentina.
Si mise a sedere ma la febbre lunare gli intorpidiva i pensieri ed i gesti. Nel grande amalgama della sospensione vacanziera, turisti e residenti si mischiavano la pelle abbronzata, si scambiavano le infradito, e concorrevano tutti, nessuno escluso, a garantire l’idiozia di cui, pensò Donato, quel paese sembrava aver bisogno più dell’aria per non sprofondare nel niente. Giurò a se stesso che non ci avrebbe più rimesso piede, a costo di lasciare per sempre Marzia. Gli amici della ragazza ridevano a crepapelle, mentre Carlo raccontava una serie di episodi divertenti della sua esperienza nell’avvocatura. Donato non si era mai sentito così solo come in quella compagnia.
La luna si affacciava timida da una laniggine di nuvole, Donato la osservò e ripensò alle parole di Bebo Dalloro. Lo stato di alterazione della febbre continuava ad assicurargli che anche una cosa così assurda potesse essere, per chi sa quale motivo, semplicemente vera. Alle volte cadiamo in stati di pensiero per cui ogni nostra convinzione è scardinata, che sia dalla malattia o dalla rassegnazione, perciò anche quella follia pesava dello stesso peso di una verità già accettata. Donato fece due conti. Bene, pensò guardando l’avvocato e gli altri, se così dev’essere, qua un morso a uno di questi ci scappa sicuro. Cedeva al primo impulso dei malati: il desiderio che l’intero mondo si ammali con loro.
– Non ti vedo in gran forma – ridacchiò Carlo, mentre frantumava una manciata di arachidi tra i denti enormi. Donato pensò come sarebbe stato strappare la carotide dalla gola dell’amico avvocato. Gli sembrò di sentire sotto la lingua la calda mollezza della sua carne lacerata.
Si persero in vecchie nostalgie. Memorie condivise da cui Donato era chiaramente escluso. Finirono per passare ad argomenti più intimi. Valentina lamentava la separazione con il suo ragazzo. Parlava con lo sguardo perso a centro tavola, come se ogni parola fosse ispirata dagli dèi.
Sostenne così a lungo quell’espressione oracolare che non riuscì a evitare negli altri il sospetto che non ci fosse che teatro là dietro.
Carlo la guardava così languida, così lontana. Ma non c’erano vere e proprie distanze, almeno non di tipo siderale, perché i suoi occhi roteavano ma spulciavano l’inventario del piattino degli aperitivi, contando i termini socialmente accettabili secondo i quali poteva sentirsi libera di riaffondare la zampa a prendere una delle sempre più scarseggianti pizzette. Che stronza! pensò l’avvocato, ma disse: – Vedrai, vedrai. Tutto passa.
Al tavolo accanto, una signora dava ordini al filippino in piedi davanti a lei che armeggiava con i guinzagli di quattro cani di taglia diversa, agitati dalla presenza di Donato. Le sue tempie cominciarono a pulsare come tamburi dal profondo e la vista cominciava ad annebbiarsi. Si sentì accerchiato.
Erano davvero quelli i suoi spazi di manovra? I rapporti a cui teneva di più erano fitte nel costato, erano spilli nelle palpebre. Erano un qualcosa di vivo, che lui sentiva di offuscare con il peso della propria inadeguatezza, con il grigiore delle sue giornate, con l’assenza totale delle proprie aspirazioni.
“Perchè non ti sforzi un pochino?”
Marzia esaurì il suo Bellini stando attenta a non produrre rumori fastidiosi con il risucchio della cannuccia. Lasciò un dito di cocktail, facendo bene i suoi conti.
– Potremmo affittare una moto e farci tutto l’interno. – disse a un certo punto.
Donato immaginò i canini affondare nel collo di Valentina, lo sgorgare della polpa e del sangue, il sapore ferroso sul palato. Immaginò gli occhi spalancati di Carlo invasi da una vasta rete di venuzze rosse.
– Oppure sentiamo Carlotta se conosce ancora quella signora che affittava la casa a… dov’era di preciso? Eh, pure là sarebbe bello.
– Bellissimo – fece Donato mentre ticchettava i polpastrelli al ritmo che fanno le ossa quando si incontrano con i denti.
– Allora ci andiamo?
– Ci andiamo.
Marzia lo guardò. Donato sapeva esattamente decifrare quello sguardo: “Perchè non ti sforzi un pochino?”, la solita storia.
Terminarono i discorsi.
– Ci avviamo a cena? – disse qualcuno.
Il piccolo gruppetto si allontanò compatto. Poche ore dopo, erano già di ritorno, seduti allo stesso tavolino, nella stessa posizione, pronti allo spettacolo di fine stagione. Donato sudava freddo. Aveva deciso cosa fare, mentre Bebo Dalloro saliva sul palco.
VIII
Bebo Dalloro entrò in scena come una vecchia tigre del bengala in un lussuoso hotel di Las Vegas, colpito dai riflettori di bassa lega.
Si sbottonò il primo bottone della camicia e afferrò il microfono con tre dita della mano. Partì la base e Bebo Dalloro si cimentò in alcuni suoi irrinunciabili capolavori come “Quando mi innamorai di te” e “L’ultima volta, tu“, concedendo il meglio della sua discografia ad un pubblico per lo più distratto o divertito per altri motivi che non avevano niente a che fare con la musica, con lo sforzo artistico di un genio degli applausi. Ma Bebo continuava come l’intercity che era a tirarsi sopra la testa la coperta della professionalità e a cantare nonostante tutto, nonostante i gorgheggi del pubblico, il tintinnare dei bicchieri, le chiacchiere di tutta la gente disinteressata alla sua arte e tesa per lo più allo sperpero vacanziero. Bebo aveva qualcosa da dare e lo soffiava via ad ogni strofa.
Donato osservava Bebo. Regalava le sue canzoni al mondo una per una, come una vecchia signora che sgrana la collana di perle e tira fuori gli orecchini di corallo dal piccolo scrigno portagioie per mostrarle alle amiche del the.
Per la prima volta, Donato capì che lui quell’energia non ce l’aveva: l’energia di combattere. Di essere umano.
Dalla ferita sulla spalla sembravano fuoriuscire dei lampi e nei lampi c’era la visione intermittente di una serie di vite.
C’era il volto della donna amata, amata male o per ragioni sbagliate. Il volto severo del padre di lei. Quello della sorella, odiosa per difetto d’amore. C’erano il dottore, l’avvocato, Valentina, il barista, il filippino coi cani. C’era tutta una parata di vite che sfogavano in un rumore assordante, come il decollo di un aereo, tutte le possibilità dell’esistenza e spingeveno l’uomo verso un destino, lo spintonavano verso una vita degna di essere vissuta e chiamata per nome. Verso l’Umanità. Ma l’uomo sembrava scivolare verso qualcos’altro, un qualcosa che aveva la consistenza delle alghe che tanto era stato a fissare. Qualcosa che cominciava ad assumere sempre di più i contorni un po’ sfatti di Bebo Dalloro.
Donato si alzò dalla sedia. Aveva deciso già da un po’. Marzia lo gelò con un’occhiata. Carlo accavallò le gambe mentre “Finchè sei con me” raggiungeva l’apice del gorgheggio, i coni di luce multicolore si inseguivano sulle facciate dei palazzi, e la cameriera bionda faceva slalom tra le sedie di metallo.
“Seiiii” Bebo agguantò il microfono e cavalcò un’energia che sembrava andarsi a pescare in qualche regione segreta del basso ventre “coooo…”
– Ma dove vai? – chiese la ragazza.
“…ooon…”
Donato appoggiò la mano al tavolino e premette i polpastrelli sulla superficie metallica fino a sbiancare le dita. Sentiva un gorgoglio sempre più intenso allo stomaco, al petto, alle tempie. Era la voce della febbre, la voce della bestia e gli assicurava che presto sarebbe mutato.
– Scusate. Vado a fare due passi.
“…meeeeee…”
La ragazza adeguò la sua espressione al disgusto.
– Deve andare in bagno – suggerì l’avvocato al suo pubblico quando Donato si era già allontanato.
La faccia immobile di Bebo contratta nello sforzo rimase scolpita nell’acuto, mentre una grossa goccia gli attraversava la ragnatela di rughe che offriva ai riflettori.
“…eeee.”
Applausi.
Donato si accorse di correre solo una volta arrivato all’altezza del cinema. Stava andando verso la laguna? Per la prima volta sentiva di non appartenere più al consorzio degli uomini. Si fermò a due passi dall’acqua. Vide la superficie nera, calcolò la distanza dalla riva opposta. Riusciva a scorgere la macchia mediterranea, le cime dei pini marittimi gli offrivano l’immagine di un rifugio sicuro.
“Perchè non ti sforzi un pochino?”
Si buttò.
Il liquido nerastro della laguna sembrava far scivolare il suo corpo come su una membrana, in due bracciate si trovò ad aver già distanziato la riva di una decina di metri. Sentiva crescere in sé un’energia infinita. In poco tempo sarebbe arrivato dall’altra parte. Sarebbe venuto il nulla.
E andò allora verso quel nulla, e capì, poco prima di non pensarci più, prima che la macchia gli invadesse i pensieri, che quel buio altro non era che la somma di esistenze che si slanciavano verso l’infinito e che, ad ogni modo, non lo avrebbero mai più riguardato.
IX
Una coppietta venne distratta tra un bacio e l’altro dalle grida dei gabbiani, i quali si azzuffavano, strattonando con il becco un qualcosa di molto simile alla muta dei serpenti, ma appartenente, a giudicare dalla misura, ad un animale molto molto più grosso. La ragazza si scostò per qualche secondo dal mulinellare un po’ bavoso del ragazzo e si guardò intorno. Strizzò gli occhi e notò come un’appendice di quell’ammasso gelatinoso conteso dagli uccelli ricordasse una faccia. Le sembrava di riconoscere i fori degli occhi, una mucellitudine pendula che poteva essere stato un naso e soprattutto una bocca, larga e con le labbra sgonfie. Pensò che fosse tutto molto strano, ma poi il ragazzo la prese per mano e la portò verso il parcheggio dei motorini. La ragazza continuò a pensare a quella cosa orrende sulla strada di casa. Un’immagine in particolare continuava a balenarle in mente: tra le fessure pressate e ingiallite di quelle che un tempo furono forse delle labbra, alla ragazza parve di riconoscere senza sforzo d’immaginazione, le pieghe di un enorme, soddisfatto sorriso.
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