Nowhere in America // THE CARD COUNTER, P. Schrader


C’è un asse che unisce le esistenze raccontate dalla cinematografia di Schrader, una strada perduta inghiottita dalla notte americana, capace di svolte improvvise, di perdersi sotto un cielo  pastorale (l’ultimo First Reformed con un Ethan Hawke prete di provincia), e tornare di nuovo tra le metropoli in questa ultima opera, presentata a Venezia 78. 

La attraversano personaggi preda di vortici centripeti, avvitati su di un passato incancellabile. 

Ennesimo di questo esercito di solitari, erede del Travis Bickle deniriano, è il William Tell – alias di William Tillich – di Oscar Isaac. 

Sguardo alienato, scavato da ombre dure e come immerso in un pensiero perenne,Tillich è un ex carceriere di Abu Ghraib coinvolto nello scandalo degli abusi del 2003. Autore di atroci violazioni e di atti al di fuori di ogni umanità, Tillich, per essersi fatto fotografare con i torturati, è uno dei pochi ad aver scontato una pena.

In carcere apprende di avere una buona memoria che mette al servizio del black jack, un talento a doppio filo: la capacità mnemonica di ricordare le carte gli permette di eccellere al tavolo verde ma è la stessa che gli mette in croce la mente con il veleno dei ricordi.

Di nuovo in libertà, grigio vestito, Tillich tiene fede a un proposito irrealizzabile, una cantafavola a cui impone di reggere una prospettiva insostenibile, quella di uscire dal giro, di smettere, di portare a segno piccole vittorie e lasciare il tavolo prima che ci si accorga di lui. Un sistema che reitera e che crede possa reggere alla pressione e al tempo. 

Ma i peccati, nel sistema shraderiano, sono inobliabili, restano attaccati ad ogni pensiero, ad ogni gesto e solo il persistente e schedulato annullamento di sé può assumere gli aspetti di una tregua. 

Si intromettono nell’assetto prestabilito due personaggi che ne sconvolgono la traiettoria.

La Linda, talent scout sicura di sé, la quale offre a Tillich la possibilità di un’espiazione più dolce, vissuta attraverso la riflessione del sentimento. 

L’altro meccanismo atto a smontare l’imperturbabilità di Tillich è invece Cirk, figlio di un torturatore di Bagram suicidatosi per i sensi di colpa, non prima di aver rovinato l’intera famiglia.  

Cirk pone di fronte a Tillich lo specchio del suo passato, un altro sé, un doppio fantasmatico, presenta i termini di una redenzione che ha il gusto antico della vendetta: scovare e uccidere il Maggiore John Gordo (Defoe) colpevole di aver insegnato a dei poveri cristi il male ed essere uscito indenne dallo scandalo. 

Secondo Cirk c’è sempre una responsabilità più grande e non c’è peggior colpevole di chi non paga mai. Il Maggiore, secondo tale visione, è l’elemento cardine di un sistema americano che sembra confermare come a pagare dei peccati di una nazione ci siano sempre e solo i suoi figli derelitti e mai le alte sfere. Gordo vive oggi senza peccato, senza colpe. Per Cirk è il culmine dell’inaccettabilità. 

Schrader espone il volto di un Paese desolato costringendolo in una serie di piani ambientali immobili e svuotati. Nonluoghi come gli spazi senza tempo dei Casinò, come l’autostrada notturna che Tillich affronta per passare da una città all’altra, o come i motel, luoghi simbolo di un’America profonda. Luoghi in cui non si vive ma che si attraversano, in cui si sosta in nome di una funzione particolare e che non si possono “abitare”. Lo stesso atteggiamento che Tillich cerca di avere con i suoi ricordi, ogni stanza che infesta, da spettro quale è, la ricopre di teli, quasi si preparasse continuamente a una nuova tortura.

Dissolvenze e sgrandangolate recuperano le memorie di Abu Grhaib, un piano sequenza ci mostra l’orrore come in un videogame senza possibilità di distogliere lo sguardo. Tra il basso continuo dei synth che ricordano il Refn di Drive, e un voice over che rimanda all’amico-collega-produttore Scorsese, Schrader lascia intravedere un sottomondo infimo e fumoso gravitante attorno ai tavoli di poker.  Spicca il giocatore  U.S.A., macchietta vincente, che, per una ragione o per un’altra, non si può battere. 

L’opera di Paul Schrader, si sforza di comporre il profilo di un’esistenza al cui al centro c’è sempre l’uomo e la sua più o meno impossibile redenzione. Il tipo schraderiano è in perenne prossimità di un baratro, sull’orlo di un tilt sempre più  possibile, così come il giocatore di poker e di black jack. Tillich, come Cirk, come tutti,  è a un passo dalla follia. La differenza con gli altri è avere la consapevolezza di tale pericolo.

Per il resto, l’America sembra un deserto d’anime, in cui tutti nazioni e individui, scontano una pena o un peccato, una landa artificiale come le luci che la descrivono, immersa in una notte dell’anima in cui l’alba sembra scongiurata.

Tillich immola il proprio corpo a un esorcismo di massa, si ricopre del mantello della colpa collettiva e punisce il Nemico, il capro espiatorio Gordo. Persino lo spettatore è dispensato dal vedere la punizione, relegata al fuori campo.

Sgravatosi della colpa universale, Tillich ritrova La Linda. Il sentimento può unire due persone disperatamente sole, sebbene ci sia sempre di mezzo qualcosa, una lastra di vetro tra due mani che si toccano. Lo spazio tra le due mani che si cercano : il caso, il destino, il passato, la colpa – è lo stesso che passa tra Dio e Adamo nel capolavoro di Michelangelo. Breve ma incolmabile. 

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