Sin dai primi minuti di Qui Rido Io si è calati immediatamente in una rappresentazione di Miseria e Nobiltà in cui la camera scivola tra palco e retropalco, un fluire tra vita e finzione che chiarisce da subito quanto sia labile la membrana che separa i due poli.
Un micromondo formicolante in attività, una compagnia familiare al cui centro, sole attorno a cui tutti ruotano, c’è lui: Eduardo Scarpetta, prim’attore, impresario e padre di famiglia.
I tre aspetti dell’uomo Scarpetta si fondono in quella che è una figura roboante, fondante, non solo il teatro moderno borghese napoletano ma anche una dinastia che attraverserà il Novecento.
Martone recupera la Napoli della Belle Époque fatta di interni di palazzi borghesi e ville principesche, case popolari e, soprattutto, di teatro, che osserviamo asse dopo asse, centimetro su centimetro dalla platea al retropalco.
Servillo – di cui non si indovina più la vera faccia, nell’abbuffata di personaggi e di maschere che ha indossato negli ultimi anni – ci offre uno straordinario ritratto dell’uomo e dell’amato artista napoletano afflitto nel privato da una serie di contrasti.
Il primo è quello familiare. Pater Theatri, Scarpetta ha imbastito un gineceo imperniato sul suo narcisismo esasperante, riflesso dalle gigantografie fotografiche della Villa al Vomero (Qui rido io è la frase che il commediografo ha voluto incidere all’ingresso).
Presenza ingombrante dietro e davanti il sipario, Scarpetta non riesce più a gestirsi completamente nell’ambiente familiare così come in quello popolare dei parenti della moglie.
Emblematizza questa sua impossibilità la scena del bicchiere di vino, quando fugge da Palazzo Scarpetta per trovare l’amante a casa sua. Interrompe così una convivialità tutta popolare, lontana da quella borghese in cui ormai è rinchiusa la famiglia-ditta. Ma la presa di coscienza è terribile, perché svela le carte: Scarpetta non può più comunicare con queste persone, non dal vivo, non come uomo. Sebbene Sciosciammocca sia il loro rappresentante, amato e richiesto da un pubblico sempre in visibilio, capopartito della miseria, il ricco Scarpetta è ben lontano dall’aderire a quella gioia del popolo e, anzi, la sua sola presenza interrompe i discorsi, smonta i sorrisi sinceri, fa assumere facce da impiegati agli astanti.
Gattopardo di un fare teatro al crepuscolo, Scarpetta si aggira dunque per una Napoli imbevuta di un luce gialla e malinconica, Charlot senza pubblico, s’incammina tristemente fino al teatro dove incontra un suo doppio, lo psicopompo Pulcinella, esposto come in una camera ardente, il quale gli specchia la sua stessa faccia, ennesima maschera di una maschera.
Il commiato funebre di Pulcinella presenta una verità intima che vale quanto una veggenza:
la maschera si farà carne. Sciosciammocca ha ucciso Pulcinella ma il processo è in corso, sotto Pulcinella c’è la faccia di Scarpetta e sotto la faccia di Scarpetta c’è già pronto Eduardo e via andare. Un flusso continuo che nasconde una vena sotterranea che parla di eredità.
E ciò che si lascia è uno dei temi fondanti l’opera di Martone, il rapporto con quello che si eredita, la possibilità di vedere riconosciuto o rifiutare il dono avuto per diritto di nascita.
Nove figli per tre madri, Uomo Mondo, Scarpetta non concede nulla al figlio Vincenzo e non lascia che si realizzi oltre Felice Sciosciammocca, il personaggio sul quale la fortuna della famiglia si basa. Ci sono poi le mogli che sanno tutto e conversano prendendo il caffè perché sotto quel tetto non c’è scuorno. Infine i fratelli De Filippo, non riconosciuti, che lo chiamano zio, ma che ne porteranno avanti più di tutti l’eredità.
La scena della spartizione del sartù, in cui a ognuno tocca una parte diversa, racconta meglio di ogni parola la frammentazione del lascito scarpettiano, quasi una premonizione di ciò che sarà.
Se il lato intimo di Scarpetta ormai è in fase di disgregazione, persino il suo ruolo pubblico va in crisi. A scatenarla è lo scontro con il Vate, Gabriele D’Annunzio – o Rapagnetta come viene appellato da Scarpetta nel tentativo di depotenziarlo – sulla cui opera la Figlia di Iorio si avvitano le vicende della seconda parte del film.
Lo scontro si fa ideologico, il processo segna il passo e diventerà un punto fondamentale a favore della parodia nel dibattito, ancora oggi in corso, sulle infinite magagne del diritto d’autore.
D’Annunzio appare come una lugubre chimera tra impresario e poeta, si impossessa di un fosco e mefistofelico Pierobon (lontanissimo dallo sfatto e malinconico Castellitto del Cattivo Poeta) con le sue vamp e i suoi servitori silenti. L’incontro tra i due, al netto di qualche coloritura macchiettistica, è significativo.
In un’atmosfera resa untuosa dagli umori dell’élite intellettuale, Scarpetta deve proteggere e ribadire il suo diritto alla parodia, non una falsificazione, un furto ma un genere con una sua intima dignità, molto più vicino al popolo di quanto non lo sia l’aristocratico D’Annunzio.
Benedetto Croce gli espone una teoria che, nel momento stesso in cui tenta di salvarlo giuridicamente, lo affossa artisticamente.
Lo mette di fronta alla figura di un uomo che ha creduto in un’illusione, in una cantafavola. C’è la tragedia e c’è la farsa, c’è il basso e c’è l’alto, facce della stessa medaglia. Ma Scarpetta è necessariamente il basso, il minimo, il piccolo. Entrambi hanno ragion d’essere. Ma D’Annunzio è l’autore riverito, Scarpetta ne è l’ombra parodica.
La figlia di Iorio è germinato dell’afflato poetico, della tensione del grande autore, Il figlio di Iorio scarpettiano è, solamente, una parodia.
Dalla bocca di Croce emerge una verità, su cui vengono rette le difese in tribunale, che sconcerta Scarpetta, punto nel vivo della sua dignità d’artista, umiliato e offeso.
Ma non si può neanche stare troppo a soffrirne, perché nonostante Sciosciammocca abbia ucciso Pulcinella, altre forze si fanno all’orizzonte. Il cinema, sovvertitore del teatro, e altre nere potenze pronte a sorgere negli anni a venire.
Qui Rido Io è un racconto per il popolo a cui Martone non contrappone una regia virtuosa, ma che lascia scorrere dall’inizio alla fine nei suoi 133 minuti.
Passato attraverso la temperie risorgimentale della straordinario Noi Credevamo e alle infinite divagazioni poetiche del Leopardi di Elio Germano, torna alla sua Napoli su cui innesta un discorso di recupero identitario, si interroga sul senso più profondo dell’arte e della famiglia, vero teatro di gioie e traumi, un surrogato di felicità capace però di generare dei mostri senza nome. Ci regala – forse – uno dei suoi film migliori.
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