La ragazza azzurra // RACCONTO

Chiara è nome d’acqua limpida e pura. Ma fu, in tempi andati, anche nome e richiamo per ragazza a lume di luna su un tappeto di foglie calpestate, in una provincia nel mondo che per ragioni segrete non dico. Confesso comunque il resto.

I

Ad esempio: che era fine settembre e che un accordo dell’ultimo momento dispose di un incontro in quelle località “a lei tanto care”, una fuga in campagna, quindi una serie di circostanze sfuggite di mano a causa dell’eccitamento, della paura e del coraggio che infonde l’intimità del buio. 

In macchina, andando incontro a tutto questo, diretti all’argine del fiume a cui lei già tendeva proiettandosi in avanti sul sedile, le tenevo gli occhi addosso, seguivo in silenziosa contemplazione le sue indicazioni – gira di qua, prendi la prima a sinistra dopo quella curva a dritto – mentre scorrevano le  punte dei cipressi sul parabrezza impolverato. Per fingermi indaffarato armeggiavo con la radio e negli intervalli rumorosi delle stazioni i miei pensieri si diluivano nelle interferenze delle trasmissioni. Poi lo sguardo si sforzava di decifrare un senso tra le impronte delle dita sul finestrino, come una mappa che mi indicasse i giusti passi da fare per avvicinarmi a Chiara. Che era accanto a me ma, per il mio timido imbarazzo, per i miei segreti timori, distante anni luce.

Appena arrivati allo spiazzo in cui mi disse di parcheggiare mi guardai intorno. Avevamo preso una serie di stradine sterrate, passando accanto a vecchi poderi addormentati, fino a raggiungere l’argine del fiume. Chiara mi mise al corrente.

– Abitavo da queste parti da piccola. Qua vicino c’è uno di quei pozzi di cui parlava Dario. –

 Mi richiamava a una memoria comune, di una sera di qualche tempo prima, a inizio stagione, quando per giocare si raccontavano storie strane e leggende di paese. Non ci pensavo da mesi e mi sorprese che Chiara avesse conservato ricordo di una sciocchezza simile. Ma anche per questa sua tendenza a sorprendere, Chiara per me era quello che era. 

 Spenti i fari, l’argine divenne una valle di tenebra. Potevo solo indovinare che poco più avanti ci fosse il corso d’acqua, mentre che sulla destra si perdessero i campi, con i fossi e i pozzi dei contadini le cui case erano anch’esse inghiottite dalla notte. Alle spalle il paese che ci eravamo lasciati indietro, illuminato da una luce distante e sfocata.

 -Seguimi, te lo faccio vedere. –  disse e mentre rideva, la vidi fuggire via, verso i campi. Presi subito a chiamarla, sbigottito dal terrore di trovarmi di nuovo solo: 

– Chiara! Chiara! – davo fondo a tutti gli accenti e alle intonazioni che una voce roca e male usata potevano offrire e lei, per pronta risposta, fingeva di non sentire. Le nostre geografie erano quelle della notte e del buio. A coprire la luna, delle enormi nuvole che correvano sfaldandosi, per poi ricomporsi. Navigavo  a vista. La mia voce compiva piroette magistrali, si scomponeva in eco prima di dissiparsi in qualche angolo o in qualche buca. Chiara! Chiara! A rispondermi: solo il buio. 

Suo, di Chiara intendo, era l’entusiasmo infantile, lei ad aver imposto il gioco del rincorrersi, scattando in avanti all’improvviso. Mia la paura e tutte le sue declinazioni. Chi avrebbe potuto intravedere, nei segni incerti che la vita ci aveva offerto, che un giorno Giacomino il poeta solitario e Chiara avrebbero condiviso l’incoscienza di quella notte. Ero felice, seppur con mille pensieri. Sentivo tutto il peso della mia inadeguatezza, il bisogno di far fronte agli entusiasmi di Chiara, di vincere le mie paure.

“Vieni!” gridava a intervalli, in fuga lontana. Le risate coprivano il rumore della corsa. “Vieni qui, dai!”. Non potevo fare altro che correre a mia volta, ignaro di direzioni, come ho già detto.

Il vento della sera mi accarezzava la pelle, una bocca immensa e inevitabile sembrava soffiare su di me, e la luna non confortava. Era inutile e lontana, una palla marmorea insensibile e indifferente, fortuna dei poetastri, dei ciarlatani, degli astrologi. Rimaneva sospesa in quel suo ozio galleggiante. Quale ingombro invece costituiva il mio corpo, sgraziato e contrastato da quel vento inesauribile, in una notte così velata e d’improvviso silenziosa. Mi ero perso nei miei pensieri, così quando tornai in me, in un attimo capii di trovarmi alle porte di un incubo. L’ultimo grido d’incitamento di Chiara si era interrotto all’improvviso. 

II

Ma a inaugurare quel settembre fu una stagione delle più afose, delle più variabili e delle più inquiete. Scarsa in un primo momento d’attenzioni d’amore, eppure non priva di occhiate fugaci di ragazze, di accadimenti vaghi e incroci di sguardi scambiati bellamente per destini inderogabili e  promesse di felicità. I vagiti di un’estate incerta s’erano presentati prima del previsto, ora infuocando il cielo, ora scomponendolo in pioggia. 

I ragazzi rispolverarono ad inizio giugno una noia ben collaudata. Loro il mestiere della noia, loro tutti gli sbadigli. Della stessa immobilità, speculare e contraria, ad altre ore del giorno, i vecchi giacevano su panchine all’ombra, raccontandosi storie riparati dagli olmi della piazza, tanto simili a delle lucertole predisposte ad una sorte ben temperata. La differenza tra i vecchi e i giovani mi sembrava stare tutta nella diversa attitudine all’attesa. I primi, nell’attesa di una fine che sanno vicina, che scongiurano o dimenticano, come si fa di un qualcosa a cui non si può sfuggire; i secondi che attendono un tempo futuribile che non arriva mai, se non quando è già passato, come un qualcosa che gli è dovuto, o promesso sbadatamente. 

Quanto a me: fu alle porte dell’estate che mi si presentò l’occasione di allungare la mano ad accertarmi del gusto vitale delle cose, nella forma e nei modi di una ragazza dal viso gentile, dagli occhi orientali, magra d’una magrezza selvatica, dalle lunghe gambe e dalle belle ciglia… Chiara, naturalmente. Cosa avrei dato in cambio per meritarlo? Una sicurezza voluta e ricercata, una solitudine sperperata in monologhi da camera, in smorfie allo specchio, in false certezze da romanzetto da quattro spiccioli, desiderata, insperata e infine ottenuta. Ma ottenuta nella maniera che è delle più scomode: quando ormai non vale più niente, perchè non se ne può disporre in alcun modo. Quella solitudine non giocava a favore di nessuno e io non ne cavavo un ragno dal buco. Avevo speso il mio inverno senza grossi guadagni, in termini spirituali o di miglioramento di sé. In compenso mi eri ritagliato in paese questo ruolo estraneo, il tipo taciturno che arriva al bar, beve da solo e a un certo punto se ne va. D’altronde, scrutando i volti e ascoltando i discorsi dei miei compaesani, provavo per lo più un cauto senso di disgusto, di repulsione per le loro vite vuote e fragili. Ma anche nel fondo della più convinta solitudine si apre a un certo punto la ferita dissanguante del bisogno d’altri. Decisi dunque, verso maggio, di concedere al sentimento la possibilità di sconvolgere le mie giornate. Non lo sapevo ancora ma per quel trimestre Chiara, che tutte le sere vedevo ridere al bar, sarebbe stato l’amore di una vita. 

Non si può restare soli a lungo senza che gli altri ti guardino con sospetto.  Entrai nel giro di quel gruppetto di sfaccendati all’inizio come buffoncello da compagnia – mi chiamavano Giacomino il poeta, ridendo della mia solitudine, della mia malinconia – che è spesso il prezzo da pagare dell’ultimo arrivato. Erano comunque i meno peggio, in quel microcosmo provinciale nel quale sprofondavo ogni giorno di più. Quando poi le prese in giro si fecero meno feroci e il mettermi sempre in mezzo divenuto ormai un gioco banale e usato, restai tra di loro. Ero parte della banda. Passavamo il tempo a vivacchiare, a raccontarci storie in vecchie mansarde, berci via la noia, spipacchiando qua e là del pessimo fumo che qualcuno riusciva in qualche modo a recuperare.  Si parlava di fantasmi e di mostri, e ci si sfidava ad entrare in case abbandonate, o nel cimitero dove dormivano i nostri nonni. Giochi ammazzanoia, per lo più, per dar fondo alla stagione in compagnia. Fu Dario, perno della compagnia, durante una di queste serate, a raccontarci di un invito segreto, di un tetro appello che subisce chi osserva per troppo tempo le nere acque della notte riflesse in un pozzo: “Vedrai la Ragazza Azzurra e desidererai abbandonarti a quelle profondità”. Ci avvertì la sua voce impostata, le sue mani ad artiglio. Ridevamo allora, era tutto uno scherzo. 

Casa di Dario era una mansardina ricavata a stento sopra l’appartamento dell’Ingegner Guadalazzi. L’Ingegnere, questa fantasmatica e liquida presenza, si manifestava esclusivamente nei colpi di bastone che ogni tanto ci assestava dal pavimento, o meglio, dal suo soffitto al nostro pavimento, quando voleva chiudere occhio e si sentiva impossibilitato a farlo a causa del nostro ridere, del nostro urlare, del nostro, a ben vedere più che giustificato, goderci la vita. Ogni volta Dario era tutta una alzata di spalle, abbassava la musica, se c’era la musica, diceva di far piano. Finiva più o meno lì la sua preoccupazione.

Poi venne a trovarlo una cugina che abitava a Londra, per lei la city; per noi l’altrove, la Mesopotamia, l’Atlantide siderale dove tutto le cose succedono. Questa cugina portò in dono una tavoletta di quelle spiritiche e tutta una marea di entusiasmo a favore del suo utilizzo. C’è da dire che in tutta la compagnia, sebbene fino a quel momento avessi sempre ceduto di buona grazia alle incursioni nel mistero, solo io tenni alzato il sopracciglio della cautela. Di fronte a forze oscure e inesplorabili, conviene non applicarsi senza le dovute cautele. Ma la cugina era irrefrenabile, Dario tutto un’alzata di spalle, Chiara al settimo cielo. Come spesso accade, venni convinto dallo spirito dei tempi. 

Si era acceso un temporale, residuo della stagione passata, portando un’aria fredda e infima che cercava di infiltrarsi dagli infissi scalcagnati, mentre Dario e la cugina predisponevano tutto l’ambaradan necessario alle operazioni occulte. 

In quei primi momenti, Chiara ronzava con lo sguardo per la stanza e quando le capitava di posarsi su di me, troppa era già la vergogna che io distoglievo subito lo sguardo, fingendo interesse maggiore per altre cose più importanti come la lava lamp sul comò o la macchia di muffa sul soffitto, come vi leggessi dentro chissà quali segreti del mondo. Le altre compagne di serate, la Sarina e la Linda, riflettevano solo un decimo dello splendore di Chiara, della sua naturale eleganza di gesto e di sorriso, alle quali si accordavano senza problemi una mente e dei pensieri sicuramente armoniosi.

Cercai di farmi contagiare dall’euforia di Chiara. La cugina di Dario prese a raccontare storie di fantasmi londinesi, di teste volanti, di rumori e apparizioni inspiegabili di bambine scarlatte. A Dario venne allora in mente una storia da controbattere, molto meno metropolitana, quella della Ragazza Azzurra, un’entità che vive, secondo la sua inverificabile testimonianza, nei pozzi abbandonati dei contadini, nelle tombe etrusche ancora non riscoperte, nei vecchi fienili e nei casolari distrutti dalle bombe e dal tempo. 

– Lei appare e ti allunga la mano, e se tu gliela prendi, finirai al suo posto, a infestare quei luoghi.

Si procedette quindi al clou della serata, la seduta medianica. La cugina officiava il rito, storpiava frasette latineggianti e invocazioni tutte gola. Quando il momento si fece drastico, quando i gorgoglii dei nostri stomaci avvinazzati vennero sorpassati dalla cugina e dal suo invito agli spiriti di palesarsi, un rintocco funereo ci prese di soprassalto. Ma non erano state le anime dei trapassati chiamati in causa, bensì l’Ingegnere che si era palesato per ricondurci al silenzio condominiale. 

Ridemmo, fumammo e passammo oltre, la serata si concluse, così come, di lì a poco, la stagione. La cugina tornò toma toma alla sua city, l’estate finì senza particolari di rilievo. 

A tarda notte le strade si vestirono di un silenzio catodico e spettrale. Dopo Ferragosto, la provincia si era rintanata in casa davanti ai ventilatori e nell’aria quel silenzio assumeva i colori di una tenebra umida che bagnava le strade, mentre dietro le finestre le luci gialle delle cucine filtravano dalle tapparelle mezzo abbassate e dalle zanzariere. Nessuno l ‘avrebbe scalfito, per quanto ci provassimo con le nostre urla da gatti sui tetti del mondo. Per quelle strade solo noi, a cavallo di biciclette sgangherate, rumoreggianti in quel silenzio di provincia. La confusione del sentimento, il feroce possesso, o quantomeno il desiderio di esso, amplificavano quel non-suono nelle pareti del mio cervello. Una serie di tonfi sordi, tum tum tum, a scongiurare il vuoto. Chiara mi saettava davanti scherzando con questo e con quell’altro, con Sandro e con Dario e le sue gambe sorprese nella ginnastica dei pedali aizzavano un desiderio che faticava a tacere.  La volevo ancora, Chiara,  ai miei modi e alle mie condizioni. Sapevo benissimo ignorare gli scherzi degli altri, le frecciatine estenuate, le prese in giro, ma quel sentimento diventava ogni giorno più ingombrante. Quali erano questi modi e queste condizioni? In primo luogo l’esclusività, la volevo solo per me e gli sguardi complici che lanciava agli altri per me erano spilli negli occhi e fiamme nel mio letto solitario. Ma non mi sarei arreso. 

C’era lei, e lei sola, ad aver instillato in me quel forte volerla. Né la Linda, insipida e stupida come un mazzo di chiavi, nè la Sarina, con il suo viso tondo e il sorriso irregolare. Chiara, solo Chiara, con tutto il suo armamentario di false sicurezze e di gioia infantile. Il cigolare arrugginito delle catene si spandeva nella notte sempre più sfilacciata d’estate. Per brevi e sussultori attimi, in curve prese all’improvviso, in notti tirate fino allo stremo, mi scoprivo  felice. 

Una sera di quelle, dopo aver vagato per ore, di sponda ad ogni bar aperto fino alla tarda, Chiara mi vide appoggiare i gomiti al cancelletto di casa sua. Avevo fatto la mia mossa, l’avevo riaccompagnata. Un abbaio di cane in una casa vicina scongiurava adesso il silenzio. Mi guardava con uno sguardo che ebbi cuore di decifrare sul momento come un qualcosa di simile ad un vorrei ma non posso. Dall’altra parte del cancello, lei si tratteneva. Ricamò sul suo volto un sorriso appena accennato, che io incassai come un creditore con l’acqua alla gola. Rimaneva immobile, quel suo sguardo perso, quell’aria un poco scema dalla bocca semiaperta, notevole in molti casi, in quel momento bellissima. Il cane dei vicini continuava ad abbaiare, puntandomi addosso i suoi tremolanti occhi gialli.

Ci salutammo con tre frasette di circostanza, staccai i gomiti dal cancello e Chiara entrò in casa. Rimasi sul posto, a garantire quel ridicolo assedio, voltando però le spalle. Poi mi incamminai. La strada nera mi si offrì come mai prima, la notte si dischiuse in un tendaggio sottile. Altrimenti, altrimenti, altrimenti. La notte rinvigoriva le mie supposizioni di altri modi di essere me: un me diverso, un me insieme a lei. Mentre lei, adesso, tornata a casa, a cosa stava pensando? Avevo avuto modo, o fortuna, di circoscrivere un privilegio nella sua mente? Sul momento non lo credetti. Nello schianto sordo della notte, mi sedetti abbracciando le ginocchia. Il gracidare delle rane, l’impotenza della luna, già allora così bianca e inutile, riuscirono a farmi scoppiare in una risata sommessa. Perché ridevo? Per una battuta implicita della notte: io, solo, in una strada cieca, ad aspettar rincorse, a immaginare richiami… Mi alzai rincasando, senza mai staccare gli occhi dall’asfalto. 

Da quella sera non vidi più nessuno per le varie partenze in città studio lontane e frenetiche. Ebbi tempo di ricadere in vecchie speculazioni, passeggiando su e giù per camera mia: amare ed odiare, farsi amare e farsi odiare, sono fenomeni casuali. Si cerca di dare loro il senso di un destino, quando la loro concretezza sfugge anche alle analisi più convinte. Ma tanto Chiara era inarrivabile. E io di nuovo solo.

Avanzavo incerto tra quelle mie supposizioni, muovendo un piede dietro l’altro, passo dopo passo sul filo teso del baratro. 

III

Venne l’autunno, un inno al cedimento, una canzone che parla di resa. Ma una resa a cui ci si consegna facilmente. Poiché non c’è rinuncia che non contempli la speranza di una nuova primavera, che è come dire di una nuova promessa. Tranne, non considerando in piena coscienza ipotesi di altrove e paradisi, la morte. Ma se ad ogni cosa del mondo naturale, intendendo ciò che risponde ai sensi, alla causa e all’effetto, deve, contando su non so quale principio di risonanza, corrispondere una sua riproposizione, in maggiore o in minore, non è da escludere che anche la morte segua una pianificazione ciclica, che dopo di essa tornerà la vita nei modi che ci sono tanto cari. Che torneremo anche noi e le nostre particolarità e i nostri dubbi, come torna la primavera dopo la stagione dei freddi. Sarà mica possibile che l’unica cosa che non fa il giro e ritorna nell’universo siamo noi? 

Dunque, l’autunno. Rincasavo nell’ora che accelera il passo, quando si comincia a temere che le ombre diventino vive, che ci seguano con intenzione e tetri progetti. Se n’erano andati tutti. Al mio passaggio un gatto si ritirò tra le macchine.  In un momento la vidi, Chiara. Sotto casa mia, mi guardava in silenzio. Non la vedevo da settimane. Era passato del tempo, che avevo impiegato ritornando ai vecchi monologhi di cui avevo ripreso il filo. Vestiva un cappottino, un vecchio loden grigio verde della nonna,  e tanto bastò per ritrovare in me la promessa antica di nuovi splendori. Le chiesi cosa ci facesse lì, finsi una fretta immaginaria. Cercai di darmi una certa aria, come se scambiare due chiacchiere fosse una concessione che le facevo, un piccolo piacere. La nostra relazione, come a ben pensare quella di tutti, si inaugurava su immensi fraintendimenti. Tintinnavo con le chiavi mentre lei mi diceva di essere tornata per il fine settimana dopo le prime esperienze da fuorisede, che era lì per me, per la mia aria solitaria, per le mie poche parole (e non per i discorsi e le chiacchiere a vuoto di Sandro o Dario). Ora, non so come vadano le cose in questa Terra, so solo che le cose a volte accadono, e non sono spinte da niente. Dal nulla sono generate, come Chiara che mi aspetta davanti casa e che mi invita a vedere un posto del mondo che per farmi una sorpresa non dice. 

IV

Avvertii il suo ultimo grido lungo tutta la superficie della pelle prima ancora che nelle orecchie. La sentii prodigarsi in un urlo da campionato, magistrale nella sua limpidezza e nel suo strozzarsi improvviso. Silenzio. Adesso qualcuno, da qualche parte, giaceva. Lei, certamente. Ma in cuor mio ancora speravo nello scambio di persona, nell’avvento fortuito di un caso ridicolo. Poteva esserci qualcun altro insieme a noi due. Per un incastro spicciolo, per una grazia immeritata. 

– Chiara, Chiara! – gridavo, ma ora con  accenti disperati. 

Arrivai nel punto da cui mi pareva essersi esaurito l’urlo. Adesso una pallida luce filtrava dalle nuvole. La corsa mi aveva estenuato, respiravo a fatica, mi tenevo il fianco con la mano. Riuscivo finalmente a scorgere gli argini del fiume, alcune case in lontananza, da qualche parte la strada, le luci e il mondo. Un’apertura di fronte a me. Mi feci ancora più cauto. Sudavo copiosamente dalla fronte, l’aria fredda della notte mi si gelava sulla pelle. Mi asciugavo con il dorso della mano mentre procedevo a piccoli passi. La luna sorgeva perpendicolare, scoperta dalle nuvole. Dritta sopra la mia testa, svelava l’orrore: una voragine di pietra, qualche masso confuso con delle zolle, un pozzo. Il cielo mi parve capovolgersi. In quel buco, per un attimo, fu come l’affacciarsi in un altro mondo. Poi misi insieme i pezzi. Lentamente, orribilmente ma capii. Un qualcosa di solido in fondo a quella bocca perfetta. Nel cerchio della voragine un corpo galleggiava in un cielo sovvertito. 

Chiara non aveva visto il pozzo, c’era scivolata dentro. Come per una disattenzione, come una ninfa sbadata. Che sciocchina, Chiara! Piccola Ofelia di tempi meno innocenti… Oppure… oppure lo specchio d’acqua l’aveva attirata a sé? Come per un invito, ma quale? Forse quello di partecipare a quella stessa oscurità, di divenirne fratelli. 

L’aveva visto, Chiara? Aveva visto quell’essere maligno delle storie di Dario? Stupidaggini, mi ripetevo allora, roba buona per racconti davanti al fuoco. Buone per ripulirsi la coscienza.

V

Sono invecchiato di malavoglia, come per un capriccio, senza badare troppo alle chiacchiere. Eppure questa possibilità mi ritorna in mente ogni volta che mi si accusa, e dura ancora oggi. Quando passo e mi si addita. Quando si abbassa la testa e si fa finta, si bisbiglia e non si vuol capire, non si vuole credere che Chiara nel pozzo sia scivolata, quando si crede che niente di tutto quello che vado dicendo sia vero. Quando – ecco che ora lo dico-  si racconta che  Chiara nel pozzo ce l’abbia gettata io. Come avrei potuto? Proprio in quel momento in cui la felicità sembrava schiudersi, quando sembrava possibile…

Ad ogni modo, io so come le cose sono andate. So di che genere era il vento quella sera, so l’effetto che faceva alla mia pelle, so della paura e dell’eccitazione e della solidità del buio. Che mi si creda o no, non conta poi molto. Io ve l’ho detto.

Allora, tutto questo per dire cosa? Niente, infine. Mi si dovrà giocoforza perdonare la retorica e l’imbellettamento a cui mi sono disposto per chiarire una faccenducola di provincia che a molti ancora risulta ambigua e oscura. Sforzi inutili, i miei, per rintracciare un limite a questa storia, solo per non vederne alcuno. Sconcertato in più dal fatto di non riuscire a scovarne neanche un’origine. Dunque tutto accade, senza nè capo nè coda. Però adesso considero tutto il mondo meno che lei, la cui assenza sfuma i contorni e a farmi compagnia non ho più che un nome ed un vuoto. Se non altro, dentro di me,  lei è viva e mi aspetta, in un posto che per paura non dico. In certe notti ancora grido il richiamo del suo nome, ancora sogno di trovarmi in quel campo. Chiara, Chiara! Mi sembra quasi di esserci davvero, di nuovo in piedi, in una notte che è tutte le notti del mondo. Solo alcune volte, quando la stanchezza mi vessa più del solito, sento come una risposta lontana e per uno scherzo orribile delle ombre sul muro, tra la veglia e il sonno, mi pare di intravedere il pozzo al centro della mia camera e in quella bocca d’ombra, sporgendomi un poco, qualcuno che si fa sempre più vicino,  una matassa azzurra e confusa, umida, qualcosa che ritorna e che mi conosce perchè sa qual’è il suono del mio nome e lo ripete con una voce che voce non è. La osservo. E solo in queste sere in cui i nostri universi si toccano, per quelle feritoie tra i mondi che appartengono alla notte, ecco che mi tende una mano pallida e azzurra che ogni volta, da qualche tempo ormai, nei deliri del mezzosogno, sono sempre più vicino all’afferrare. 

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