Le colpe dei padri // IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO, Y. Lanthimos


Ritrovato Colin Farrell, dopo averlo lasciato nei panni dell’imbambolato protagonista di The Lobster, Yorgos Lanthimos affina le punte al suo stile, rispolvera Euripide e consegna al pubblico di Cannes 2017 una sua personale lettura dell’Ifigenia in Aulide. 

Un muscolo cardiaco giganteggia sullo schermo nelle prime immagini del Sacrificio del Cervo Sacro, svelando cosa davvero si celi sotto agli strati di pelle delle nostre persone: un qualcosa che si muove, che pulsa nel profondo,  qualcosa di sanguigno e primordiale che, nascosto e ignorato, propelle però l’intero organismo. 

Si avvia così la tragedia moderna del chirurgo Steven Murphy (Farrell) costretto a scontare i propri errori sulla testa dei figli, ridotto allo strazio di una scelta impossibile. Il sacrificio richiesto è ineluttabile, inalienabile, indiscutibile. Una punizione dal sapore divino che confina con il soprannaturale, il quale si incarna nella figura smagrita di un ragazzo dagli occhi di topo, Martin (Barry Keoghan) essere oscuro e disturbato, la cui fessura dello sguardo è capace di suggerire contatti minimali ma continui con una dimensione altra. Il ragazzo, figlio di un paziente morto sotto i ferri, stringe con il dottore una bizzarra relazione tesa sul filo dell’ambiguità.

Martin è il veicolo della vendetta. Quasi come fosse uno strumento per una forza che rimane sempre attiva ma incomprensibile, lucida nella sua matematica del sacrificio ma senza origine né spiegazioni. Una vendetta da antico testamento, crudele e precisa, si direbbe chirurgica, che non lascia spazio ad altre vie d’uscita se non quella dettata dal contrappasso. 

L’alta borghesia della famiglia Murphy cede ai colpi sostenuti di ciò che è nascosto, profondo come un impulso e completamente irrazionale. Ciò emerge da particolari feritoie che intaccano i rapporti, che incrinano il senso stesso della famiglia: in quello ambiguo tra il dottor Murphy e Martin, nell’avance spregiudicata della madre del ragazzo, nel segreto mai confessato che lega il dottore al padre, così come le particolari dinamiche sessuali di cui egli necessita (la moglie che si finge priva di sensi come anestetizzata per un’operazione).

Il cerchio si allarga, a comprendere tutti i personaggi in scena: l’amico anestesista e la masturbazione della moglie-Kidman (gesto comunque asettico, meccanico, teso solo a soddisfare un impulso, privo di ogni coinvolgimento sentimentale o emotivo), la giovane figlia alle prese con il suo primo ciclo, i capelli lunghi del figlio che lo fanno sembrare una ragazza.

Tutto fa capo alla carica eversiva dell’impulso sessuale che, come un cuore battente, soggiace a ogni nostra azione, striscia sui pavimenti lucidi delle case dei ricchi e si fa spazio tra le crepe di giorni tutti uguali. Il desiderio sessuale diviene qualcosa di effettivamente sovrumano, una forza  misteriosa con cui non possiamo fare i conti ma di cui possiamo solamente assecondare gli ordini. 

Lanthimos esagera e sfiora l’accusa di manierismo (la danza dei movimenti di macchina fatta anche di leggeri zoom, carrellate, plongèè), si assume l’onere di uno stile asettico, come una sala operatoria, in cui però i piani ci sembrano fuori asse, le stanze enormi su cui le figure si appiattiscono, inermi, gli ambienti più che abitati sembrano infestati, da revenant, da esseri fantasmatici e orridi rinchiusi in pareti perfette. Le musiche atonali concorrono a definire il senso dell’angoscia, graffiano la patina delle immagini e creano uno stato di continua tensione. Con i brividi continuamente sostenuti, con gli inseguimenti della macchina da presa nelle carrellate in lunghissimi corridoi, dove il centro appare sbilanciato, fuori asse, come se qualcosa non tornasse nell’esemplare geometria del mondo dei protagonisti, si scoprono una dopo l’altra le fondamenta marce della borghesia ritratta da Lanthimos.

La perfezione è scardinata e la bianchissima orchidea bagnata di luce sul tavolo in soggiorno della famiglia Murphy ha tutta l’idea di odorare di morte.

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