
I
È la primavera del 1859, il giorno in cui la prospettiva repubblicana si esaurisce e l’esercito francese di Napoleone III, accorso alle richieste di Papa Pio IX, assedia Roma. Un colpo sparato dal Gianicolo sbaglia traiettoria e si infrange su una scalinata di Palazzo Colonna, alterando il silenzio composto della sala di rappresentanza della famiglia romana. Ancora oggi quei gradini portano i segni dell’attacco e, sebbene evaporati tutti i protagonisti di quelle vicende, sepolti sotto strati di polvere e di retorica, la palla di cannone lì dove è caduta, lì è rimasta.
Gli eventi della gloriosa Repubblica Romana, invece, si sono persi nella coltre della Storia, che niente dimentica e tutto seppellisce, rispolverati per un breve periodo intorno al 1990, nel momento in cui Luigi Magni conclude la sua trilogia papalina-risorgimentale portando in sala Nel nome del popolo sovrano, ambientato proprio in quella primavera che vide disfarsi il sogno libertario di una repubblica effettivamente democratica.
E sebbene le cannonate del generale Oudinot sul popolo romano niente hanno a che vedere con Magni (schierato semmai dalla parte opposta) lo stesso risultato di quella deflagrazione si può rintracciare, volendo, nell’operato del regista romano che da via del Babuino, storica via a due passi da Piazza del Popolo, si è guardato spesso intorno e indietro.
Il Cinema di Luigi Magni ha, come quella palla, scalfito la superficie ed è rimasto negli anni simbolo di un progetto appartenente a un tempo e uno spazio preciso ma che ancora oggi potrebbe dirci molto su quello che siamo stati e siamo diventati.
II
Nell’affrontare il discorso filmico di Luigi Magni quello che emerge in prima battuta è una certa difficoltà a inquadrarne il percorso in una definizione che non ne limiti più del dovuto i termini e le specificità. E, a ben guardare, i tentativi in questo senso sono stati molti, in un fiorire d’aggettivazioni che più che specificare, confondono.
Cinema di parola, si è detto, e quindi di verbo, di battuta che si incarna nelle facce dei miti dello star system italico, di conseguenza cinema popolare o, ancor meglio, di popolo: cinema che cuce addosso ai grandi mattatori delle sagome che questi vivificano del loro particolare talento. Da Manfredi a Gassman, da Tognazzi a Sordi ma anche all’ultima delle comparse. Tutti, alla corte di Magni, danno sostanza a un teatro di tipi e situazioni, a un universo di personaggi sospesi tra la caricatura e l’intensità melodrammatica, una sfilata di tipi risorgimentali e pre risorgimentali tra bersaglieri, preti disillusi, vescovi e papi, garibaldini, anarchici e mazziniani, picaresche compagnie di ventura, re sfortunati, cantanti liriche perdutamente innamorate di pittori giacobini…
E ancora: Cinema municipale, Cinema di Roma e dei romani; Cinema romanesco, dialettale nell’accezione ora negativa ora purista del termine o, per concludere, come Magni stesso cinicamente suggerisce, Cinema cimiteriale in cui si finisce sempre e comunque con una lapide.
Ridurre alchemicamente all’essenza pare essere un miraggio tanto quanto estrarre dell’oro dalla materia grezza. E forse il modo migliore per capirsi non è tanto costruire un’oasi di senso ma rimanere larghi. Viene il sospetto che per avvicinarsi a Magni si debba giocoforza tagliare la testa al toro e piuttosto rimanere felici e sospesi: il Cinema di Magni è Cinema di Magni.

III
Vi è una sola certezza, seppur di grossa grana. In una carriera cinematografica che va da Faustina (1968) a La Carbonara (2000), per tacere delle fatiche teatrali e televisive, il punto focale diventa sin da subito l’esigenza espressiva che ruota intorno a un dove e un quando: Roma, l’Ottocento papalino e risorgimentale. Queste coordinate, come ricorda Argentieri, permettono a Magni di coprire “un’intera filmografia e fornisce scorci di una geografia umana, storica ed architettonica.”
Una produzione che viene solitamente rinchiusa entro i due sbrigativi poli di “commedia all’italiana in costume” o “oggetto non meglio identificato in cui si intravede un’intenzione colta”. Si tratta, nel primo caso, di evidenziare un fulgido esempio di commedia all’italiana il cui sfasamento cronologico non intacca gli stilemi del modello originale ma ne dà essenzialmente un colore in più, una sfumatura; oppure, nel secondo caso, siamo di fronte a un progetto filmico sui generis, un tentativo di nobilitare il filone con un sostrato storico di chi, evidentemente, ha fatto i suoi studi, come dice Cosulich su Paese Sera del 1977, un movimento teso a una riabilitazione della commedia di consumo. Ma si può arrivare persino a pensare che quello di Magni sia un tentativo di dare vita a un genere che d’italiano a poco, che dei vizi e delle virtù dell’italiano medio se ne frega, e che avvia e conclude nello stesso gesto la corrente della tragicommedia alla romana: un film comico permeato di morte, il cui innesto storico permette di avviare un’analisi che, lungo un’intera carriera, possa identificare quello che è l’uomo romanesco, ovvero un impasto di storia maiuscola e minuscola, di saggezza popolare, di rabbia e di accettazione, di tensioni pubbliche e private.
Pare, comunque, che della commedia, il cinema di Magni abbia poco, almeno a stare alla definizione di Bernardinis, “il cinema di Magni è cinema comico, non commedia”, in quanto:
La commedia è genere domestico, borghese. Il comico è genere planetario, popolare. […] Il popolo, a differenza della borghesia, prevede nell’orizzonte dell’esperienza la figura della morte. A differenza della commedia, che fa dell’esclusione preventiva della morte una delle sue regole predilette, il comico segue e insegue la legge della vita, e così accetta di preservare e mantenere la presenza, il sentimento, il destino e anche l’esito della morte.
Flavio De Bernardinis, I sette sigilli di Roma: la Storia e le storie nell’arte di Luigi Magni, in A.Colasanti e Ernesto Nicosia (a cura di), Luigi Magni: l’altra storia, Roma, Gli Archivi del ‘900, I quaderni degli Archivi, 2008, p.8.
Proprio la morte, riportandoci all’idea di Cinema cimiteriale, è in pratica una protagonista fissa del Cinema di Magni. Una presenza che non è mai scongiurata ma certificabile in ogni cosa, fine di ogni strada e narrazione, non solo per le condanne capitali con cui i protagonisti dei suoi film devono solitamente fare i conti e intorno ai quali ruotano Nell’anno del signore e Nel nome del Papa Re.
Questo eterno incontro con l’Estrema Signora, ridefinisce i termini di una disillusione, apre a un orizzonte di senso oscuro dove brilla solo un cinismo tipicamente popolare, ancor più romano, di quella romanità che è
Una categoria dello spirito che un’esperienza plurisecolare ha saldamente formato, generando inoltre quella sorta di naturale attitudine a potare – a volte anche cinicamente – ogni sovrastruttura per poter cogliere l’essenziale in ogni cosa e giudicarla, così nella sua dimensione più autentica e reale: un’attitudine, che spesso si serve di una battuta, di una frase, la quale possiede un’icasticità tale da far crollare anche le costruzioni più solide.
Carlo Tagliabue , Magni e Belli, Le affinità elettive, in Franco Montini, Piero Spila (a cura di), Il mondo di Luigi Magni, Avventure sogni e disincanto, Roma, Rai Libri, 2000, p.96.
Cinismo o, per meglio dire uno “scetticismo di derivazione belliana” che non è “mai espressione rigida ma buon senso: forse sfiducia in una storia nella quale pure si ha da essere presenti e si ha da intervenire (un pessimismo della mente accompagnato a un ottimismo della volontà)”.
Questa tendenza, propria del Belli, tende infatti a ricondurre a un piano di sopportazione il confronto continuo con una disfatta sociale, civile, persino esistenziale che comunque si combatte con la risata amara e se si muore, si muore con la battuta in bocca.
IV
Dopo l’esordio nel 1968 con Faustina, nel 1969 Magni, con la sua opera seconda, reclama le attenzioni di un pubblico sconcertato ma felice, il quale si trova davanti un film che come l’intera filmografia di Magni, non ha altri padri se non il Belli e la sua Roma decantata dai suoi sonetti.
E il pubblico subito riconosce quelle facce, quei volti chiamati da Magni, forte di una produzione eccezionale. Per prima quella di Nino Manfredi che si trova ad abitare il corpo di Cornacchia, ciabattino amareggiato e cornuto che si finge analfabeta ma che in realtà si scopre sin da subito essere quel Pasquino la cui voce satirica riecheggia da quattro secoli per la Città Eterna, mettendo alla berlina il potere temporale del papa e del clero.
Siamo nella Roma del 1825 di Papa Leone II, sono anni oscurantisti, dove vige il coprifuoco, gli ebrei sono ghettizzati e la repressione della polizia è all’ordine del giorno. Una Roma di scuri chiusi, di libertà offuscate, di persecuzioni vergognose.
La vicenda prende piede dal fallito attentato a un Carbonaro delatore e dalla successiva indagine del colonnello Nardoni (Enrico Maria Salerno) che porta all’arresto e alla condanna a morte dei due congiurati Montanari (Robert Hossein) e Targhini (Renaud Verley).
E poi c’è Claudia Cardinale, ovvero l’ebrea Giuditta, personaggio che si fa portatore sottotraccia di rivendicazioni femministe, ultima tra le ultime, donna ed ebrea, in un mondo cattolico e maschilista. Lei che ama sia Montanari che Targhini nonostante sia sposata – più per necessità che per voglia – proprio con Cornacchia.
Prendendo spunto da un fatto reale, il film si affida al romanzesco per raccontare una storia minimale fatta di poveri cristi che si interseca con quella dei manuali e inaugura un’idea che Magni porterà avanti per tutta la carriera.
Fuori dalle azioni carbonare e dagli attentati, lo scontro si fa principalmente dialettico. Tutti i personaggi sono chiamati ad incarnare una posizione nei confronti del potere e dell’ideale, costruendo l’intero film sull’impalcatura di una metafora ben precisa.
Magni innesta il suo dichiarato anticlericalismo nel racconto, accende la miccia della polemica descrivendo i personaggi appartenenti alla schiera di San Pietro nei duplici tratti di una Chiesa priva di scrupoli, reazionaria e bigotta, seppure machiavellica (il Cardinale Rivarola-Tognazzi ultimo orecchio a cui tutte le voci arrivano) e quella più umana, persa in un gioco di contabilità spirituale incarnata dall’ingenuo e patetico fraticello di Alberto Sordi.
E se la Chiesa dà volto al potere da destituire, i Carbonari Montanari e Targhini sono gli umili ma intransigenti servitori dell’Ideale grazie ai quali Magni inserisce una personalissima sferzata alle ideologie borghesi: la Rivoluzione è cieca ai bisogni e ai tempi del popolo ignorante (“Gli manca l’istruzione” commenta Montanari diretto a Cornacchia, incassando la risposta del ciabattino: “E a voi ve manca il popolo”).
L’individuo come Cornacchia, figura popolare pur essendo portatore di una coscienza diversa dalla massa, diviene invece elemento destabilizzante in quanto “tiratosi fuori” dall’azione, seppure non del tutto. Destabilizzazione che si fa anche linguistica, l’uso del dialetto, contro il latino e l’italiano bene del potere.
Manfredi-Cornacchia lavora per un bene che non è sottoposto all’ideale rivoluzionario ma opera sottotraccia per una ribellione che però deve partire dal popolo (“Intanto denuncio il marcio e il popolo prende nota”) il quale, sembra ribadire Magni, non deve sentire il moto rivoluzionario come un’imposizione. Ed è proprio qui che si verifica il fallimento carbonaro, che si vede, in una sequenza esemplare nella prigione di Castel Sant’Angelo. Montanari e Targhini avvertono il tumulto del popolo e, pensando alla sopraggiunta e ben sperata rivoluzione, scoprono con disappunto che il popolo tumultua non per liberarli ma per lamentarsi del fatto che si tergiversa a ghigliottinare i condannati, smaniosi di assistere allo spettacolo della punizione pubblica.
La rivoluzione borghese fallisce perché portatrice di un ideale che parte dalla testa e non dallo stomaco del popolo-pubblico. A Targhini e Montanari non resta che divenire simbolo, santi laici in attesa che il popolo si svegli per conto suo.
Mentre i due sfortunati si preparano alla pena capitale, e pur operando in favore del popolo, in attesa appunto che prenda nota, Cornacchia trova nel disimpegno la maggiore accusa che si vede presentare, sia dai rivoluzionari, sia da Giuditta:
“Loro credono, c’hanno un ideale… non so’ mica come te o come me, che nun credemo manco al pancotto. Noi semo bòni solo a piagne’ e a tribola’”.
In questo senso, il personaggio sembra incarnare e anticipare la posizione del regista davanti alla ricezione critica della sua filmografia.
Magni dovrà, infatti, continuamente scontare il debito della battuta sempre in bocca, farsi perdonare quello che sembra un disimpegno, la ricerca apparente della risata in sfavore della politica e della militanza (“Questa risata serve alla Rivoluzione?” chiede il Giacobino ne La Tosca).
Eppure il Cinema di Magni, che si pone a metà tra il popolare e una base colta piena di riferimenti, nasconde nel suo impianto spettacolare, una vena polemica che cerca di arrivare allo spettatore. A servizio di questa intenzione Magni spiega la sua arma migliore: la recitazione di Manfredi, capace di aderire perfettamente alle intenzioni registiche.
La performance di Manfredi attore […] è quella di rendere carnale il versante didascalico Manfredi recita battute e didascalie in un precipitato d’attore senza resti o residui. […] Pasquino deve essere anche didascalico (altrimenti, come può accadere che il popolo piji note?)
F. De Bernardinis, in Colasanti, Nicosia, op.cit., p.11.
Manfredi, continua De Bernardinis, possiede proprio questa capacità di “leggere” la battuta di “rendere la didascalia performativa, agire il commento”.
Grazie al sodalizio con Manfredi l’arte e la Storia di Luigi Magni si “fanno carne”, danno sostanza alla visione capace di ripetersi in altre occasioni, come nel candidato a papa del segmento Il Santo Soglio di Signori e Signori Buonanotte (1976) o in monsignor Colombo di Nel Nome del Papa Re (1977).
V
In generale, in Nell’anno del Signore, il racconto si apre a lunghe parentesi, frena e accelera, tocca appena l’assurdo e il paradosso, affida ai suoi grandi attori il compito di far respirare a cadenze diseguali la narrazione: chi vuole gigioneggia, mentre altri si concedono interpretazioni più ambigue, si preparano momenti su misura. Dalla sorniona cattiveria di Tognazzi-Rivarola a un Sordi che entra a cavallo di un’interpretazione esagerata per poi ridurre la macchietta fino a scoprire l’umanità del suo fraticello, quindi gli ingessati carbonari, o l’ignorante Bellachioma (Pippo Franco), dimesso rappresentante della parte più minuta del popolo.
Anche la musica di Trovajoli si prende il suo spazio e si fa protagonista nella sequenza in cui solo la canzone “La bella che guarda il mare” cantata da Montanari agli arresti, di fronte a una ormai inerme Cardinale, viene lasciata a commento di quegli attimi di pena e d’amore.
Unitamente al lavoro sui costumi di Lucia Mirosola , l’illuminazione di scene notturne a giorno, Roma si svela come uno scenario da cartolina o, ancor meglio, da incisione di Piranesi, un palcoscenico all’aperto per una città che in ogni pezzo di marmo esprime una dimensione dell’esistenza.
Su queste assi, Magni tesse un gioco di rilettura del presente attraverso un rispecchiarsi di temi e situazioni, la cui messa in opera si pone il duplice intento di riproporre, mascherata, la temperie di quel ‘68 di lotte ideologiche e di piazza così come quello di confrontare i due periodi ed evidenziare, nel contemporaneo sul passato, se non un’origine, almeno un sintomo di qualcosa che continuamente si ripresenta.
In ogni caso, alla fine, a prendere il sopravvento è la Storia. Dalla Roma ricostruita agli stabilimenti di De Laurentiis sulla Pontina, il film si conclude sulla Roma vera.
Mentre Pasquino si insinua là dove si annida il potere, ritirandosi in convento, i due Carbonari vengono decapitati dalle sapienti mani di Mastro Titta, il famoso boia romano. L’ultima immagine della pellicola è proprio la lapide commemorativa di quel martirio laico e quella Piazza del Popolo svuotata dai protagonisti del 1825 e ora piena di macchine, su cui scorrono i titoli di coda.
A premiare lo sforzo, il risultato in sala che lo incorona maggior incasso dell’annata 69-70 con 3,218 miliardi di lire al botteghino. Spettacoli notturni, film in cartellone per sei mesi permettono a Magni di dare finalmente avvio a una carriera che si porterà fino al nuovo millennio.
VI
Beh, ci fosse stato qualcuno che abbia riconosciuto il pallido merito di questo cinematografaro che faticosamente cerca di riproporre, sia pure attraverso vicende molto romanzate, fatti realmente accaduti e di indicarne le responsabilità.
Luigi Magni, in Montini, Spila, op.cit. p.111.
La critica, si è detto, fatica a ricordare Magni al di fuori di una concezione di cinema dal forte impianto spettacolare seppur “esente dalle volgarità della commedia di consumo”.
Cinema spettacolare e popolare, certo, ma a maggior ragione portatore sano di messaggi polemici. Popolare ma ben radicato in un sostrato colto che vive di questa dicotomia e non nega a vicenda i due poli.
Nel suo usare la Storia per mostrare a dito usando i toni del comico, si rischia di non riconoscere i meriti, di non evidenziare un certo processo storico e un’intenzione polemica. Il talento, l’unicità di Magni sta proprio nel riprendere l’essenza dell’ottocento romano con un cinema popolare e comunicativo, rappresentando una “riflessione ideologica che [lo] allontana dalla commedia italian style e ne fa un regista politico”, capace persino di fare scuola.
Magni, fedele alla massima oraziana del Castigat ridendo mores, si rivela non solo autore, ma autore politico quindi, grazie alla “sua inconfondibile attitudine evocativa alla protesta, alla denuncia di antichi mali che per i rami si perpetuano tutt’oggi, in soperchierie e arbitrii che gridano, da sempre, vendetta al cielo.”
Le vicende risorgimentali, piene di furori dimenticati, di passioni, di intrighi e avventure, sono talmente lontane dalla nostra sensibilità contemporanea da apparirci pallide nostalgie per amanti della storia, e persino il Cinema di Magni ha da scontare questa dimenticanza, ritrovandosi in una nicchia, dove altri direbbero un culto, con l’unica possibilità, forse una necessità, di farsi riscoprire.
E riscoprire bisogna, occorre tornare a fare i conti con le utopie, pure quelle tentate e fallite.
Sebbene l’eco dei suoi film ormai sia spento e la Roma di oggi si trovi distante anni luce da quella di un tempo, rimane l’ombra di una riflessione eternata in un sogghigno che per noi spettatori di oggi vale quanto un monito, un epitaffio. Lo stesso che, mutuandolo proprio da un sonetto del Belli, potremmo senza problemi leggere su una sua ipotetica e ironica lapide: Omini da veni sete futtuti.
. Riferimenti:
- A.Colasanti e Ernesto Nicosia (a cura di), Luigi Magni: l’altra storia, Roma, Gli Archivi del ‘900, I quaderni degli Archivi, 2008.
- Franco Montini, Piero Spila (a cura di), Il mondo di Luigi Magni, Avventure sogni e disincanto, Roma, Rai Libri, 2000.
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