
Tra i massimi esperti delle dinamiche dell’assurdo, Marcel Aymé ha attraversato lo scombussolato novecento letterario saldamente legato a una convinzione precisa: l’uomo è qualcosa di così profondamente contraddittorio che a guardarlo bene vengono le vertigini. Condensa questo suo pensiero in una produzione ventennale, frequentando il romanzo, il cinema, il teatro e la poesia fino a diventare, contro ogni sua renitenza a premi e riconoscimenti di sorta, anche maestro intergenerazionale capace di abitare uno spazio di rilievo nel panorama della literature fantastique.
Sono i tipi de L’Orma che ne hanno riproposto da noi due raccolte capitali di racconti (Martin lo scrittore, 2016 e la Fossa dei peccati, 2020), attraverso i quali Aymé ci offre i risultati di un’indagine umoristica e fantasiosa della società francese (si legga: del mondo), svelando con leggerezza le follie nascoste sotto il tappeto dell’anima umana senza perdere occasione, e mai cedendo alla seriosità, di avvicinarsi a piccoli ma sicuri passi a una speculazione filosofica tanto divertita quanto rigorosa.
Non solo l’elemento fantastico, i cui presupposti sono comunque perseguiti con scrupolo attento alla verità interna del racconto, ma è soprattutto il miasma dell’identità che sorprende con le sue particolarità manifeste proprio in quelle pose in cui la società – che già negli anni ‘30 e ‘40 comincia a mostrare il suo volto più paradossale – viene colta in fallo.
Il quotidiano stravolto della guerra offre lo spunto per acute ricognizioni nel paradossale. Il meccanismo dell’irrazionale prende forza a monte di un decisione perentoria di qualche potere costituito o metafisico – che sia lo Stato, la Famiglia, o una potenza superiore e inintelligibile – per poi essere subito accettato dagli individui. Proprio come la guerra stessa: decisioni prese dall’alto da vertici sideralmente lontani dalla gente, di cui non si conoscono neanche volti e nomi, ma le cui conseguenze gravano e stravolgono irrimediabilmente le vite di tutti.
Così se la Nazione dichiara che da domani si esisterà in base al proprio livello di utilità (La carta del tempo), che si sposterà in avanti il tempo mondiale di diciannove anni (Il Decreto) o che improvvisamente si avrà dimezzata l’età (Ricaduta) ai poveri tipi aymeiani non resta che adattarsi. Sono personaggi, questi, che si agitano nella stretta rete dell’irrazionale, dove anche le leggi della fisica si imbizzarriscono e prendono vie traverse. Come piccoli Sisifo, artisti poveri in canna o piccoli borghesi, impiegatucoli e scalcagnati di ogni risma, cercano di ridarsi un ordine in un mondo in cui l’ordine è bello che detonato. Un mondo in cui, ad esempio, capita di svegliarsi una mattina e scoprire di poter attraversare muri (L’Attraversamuri) o di vivere un giorno su due (Il tempo morto), di sdoppiarsi (Le Sabine) e che le proprie creazioni sfamano chiunque le contempli (La buona pittura).

Lo fanno per lo più a Montmartre quartiere-città, quoi de brume, caleidoscopio di tipi umani, guazzabuglio multicolore in cui Aymé circoscrive le loro vite. Nuotando nella luce e nelle zone d’ombra del quartiere parigino (che nel 2006 gli ha ricambiato l’attenzione dedicandogli una fantasiosa statua), lo scrittore nato nella contadina Joigny e poi trasferitosi a Parigi in cerca di una ribalta come giornalista, sembra aver raccolto il segreto della pennellata veloce tanto cara agli impressionisti che all’ombra del Sacro Cuore hanno speso vite e talenti.
Moraliste fuori tempo massimo che all’incisività dell’aforisma preferisce il volo pindarico del racconto fantastico, l’indagine socio-psicologica dei suoi protagonisti è comunque riconsegnata al lettore tramite una serie di tratti minimali. Un gesto, una noia, una condizione cristallizzata raccontano un’esistenza. I tipi di Aymé si riconoscono sulla base delle loro idiosincrasie, degli atteggiamenti vezzosi, le civetterie, le affettazioni, le paure, i timori religiosi, le ipocrisie che non evitano di manifestare tra le righe e le cui circostanze esagerate concorrono semplicemente a far venir fuori.
Al processo dell’osservazione ironica non sfugge neanche l’autore. Eccolo riversarsi sulla pagina, e per quanto l’arte del camuffamento sia efficace, riusciamo ancora a coglierlo di sorpresa dove alza più la testa (Martin il romanziere). Ma fuori dalla letteratura e nonostante l’ombra del collaborazionismo che spartisce con l’amico Céline, Aymé sembra prendere le distanze dalle fedi politiche o metafisiche, lontano come un dio che tutto osserva e niente può, se non registrare il mai noioso, mai banale, mai scontato giro di vite di una società che, fondata su un principio di serietà, pare non voler perdere occasione di mostrare il suo volto più irrazionale e stupido.

Metafiction, fantastico, ironia, le carte da giocare di Aymé sono molteplici, in un tornado combinatorio e affascinante retto da un stile che non perde mai un colpo.
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